Читаем Le sabbie di Marte полностью

«Una cosa possiamo dirtela subito» disse Hilton tra un boccone e l’altro. «Dobbiamo ritenerci straordinariamente fortunati di essere ancora vivi.»

«Questo lo so.»

«Lo sai soltanto a metà, perché non hai ancora visto dove siamo scesi. Prima di fermarci siamo filati parallelamente a quella roccia per quasi mille metri. Bastava uno sbandamento di un paio di gradi a destra, e addio! Quando abbiamo toccato il suolo abbiamo oscillato un po’ all’indietro, ma per fortuna non abbastanza da riportare danni.

«Ci troviamo in una valle lunga che corre da est a ovest. Più che di un antico letto di fiume ha tutto l’aspetto di un errore geologico, così a occhio e croce. La roccia che abbiamo di fronte è alta circa cento metri ed è praticamente verticale. Per essere esatti, in prossimità della cima si piega leggermente a uncino. Può darsi che con un po’ di buona volontà si possa scalarla, ma per il momento non abbiamo provato. Del resto non ce n’è bisogno. Se vogliamo che da Phobos ci vedano basterà che ci spostiamo un po’ a nord in modo che la roccia non si frapponga tra noi e loro. In realtà, credo che questo sia il sistema migliore, soltanto dovremmo riuscire a portare l’apparecchio in un luogo più scoperto, il che ci permetterà di usare la radio, e darà ai telescopi e alle ricerche dall’aria una maggiore possibilità di individuarci.»

«Quanto pesa?» chiese Gibson guardandosi in giro con aria preoccupata.

«Circa trenta tonnellate a pieno carico. Ma naturalmente c’è un sacco di roba inutile che possiamo togliere.»

«E invece non si può togliere niente» disse il pilota. «Significherebbe ridurre la nostra pressione, e non possiamo permetterci il lusso di sciupare aria preziosa.»

«Oh, Cielo, avevo dimenticato questo particolare. Comunque il terreno è piano e il carrello è in perfetto ordine.»

Gibson espresse i suoi dubbi con una serie di suoni molto simili a grugniti. Nonostante la bassa gravità, muovere l’aereo non doveva certo essere un’impresa facile.

La colazione, poco saporita ma sostanziosa, fu consumata in silenzio. I naufraghi rimuginavano ognuno per conto suo i più svariati progetti per la salvezza. Non erano seriamente preoccupati perché sapevano che li stavano cercando e che prima o poi li avrebbero trovati: era solo questione di tempo. Questo tempo però avrebbe potuto venire ridotto a poche ore se loro fossero riusciti a inviare un segnale a Phobos.

Dopo aver fatto colazione, tentarono di smuovere l’apparecchio. A furia di spinte riuscirono a spostarlo di cinque o sei metri. Poi i cingoli del carrello affondarono nel terreno molle, e nonostante tutti i loro sforzi il pesante apparecchio non si mosse più. Ansimanti, rientrarono in cabina a discutere sul da farsi.

«Abbiamo qualcosa di bianco, un po’ grande, da distendere sul terreno?» chiese Gibson.

L’idea era ottima ma fu stroncata sul nascere perché, dopo febbrili ricerche, riuscirono a raccogliere in tutto sei fazzoletti e pochi stracci unti d’olio di macchina. Dovettero ammettere che anche nelle condizioni più favorevoli una segnalazione ottica di dimensioni così limitate non sarebbe stata certamente visibile da Phobos.

«Ci resta una sola cosa da fare» disse Hilton. «Smontare le luci d’atterraggio, farle scorrere con un cavo fino oltre la roccia, e poi dirigerne il raggio su Phobos. Avrei preferito evitare questa soluzione se appena fosse stato possibile, chissà come si ridurrà l’ala ed è un vero peccato rovinare un così bell’aereo.»

Dalla faccia che fece, si capì che il pilota era esattamente del suo parere.

A un tratto a Jimmy venne un’idea brillante.

«Perché non costruiamo un eliografo?» disse. «Se riuscissimo a dirigere su Phobos i riflessi di uno specchio, credo che li vedrebbero.»

«A seimila chilometri di distanza?» disse Gibson scettico.

«Perché no? Hanno telescopi a oltre mille ingrandimenti. Voi non vedreste i riflessi del Sole in uno specchio anche a sei chilometri di distanza a occhio nudo?»

«Sono sicuro che nel tuo calcolo c’è un errore, anche se non saprei dirti di che errore si tratta» disse Gibson. «Nella vita reale i problemi non si risolvono mai così semplicemente. Però si può tentare. Vediamo un po’; chi ha uno specchio?»

Dopo un quarto d’ora di ricerche anche quel progetto venne abbandonato: nessuno aveva uno specchio.

«Potremmo tagliare via un pezzo d’ala e lucidarla» disse Hilton, pensoso. «Forse potrebbe servire.»

«L’ala è fatta di una lega al magnesio che non diventa lucida» disse il pilota, deciso a difendere il suo aereo fino all’ultimo.

Gibson scattò improvvisamente in piedi.

«Chi mi fa fare tre giri della cabina a calci?» disse.

«Io, con molto piacere» rispose Hilton ridendo. «Ma si può sapere perché?»

Senza rispondere Gibson andò in fondo alla cabina e si mise a frugare nel suo bagaglio voltando la schiena ai compagni incuriositi. Pochi secondi, poi si voltò di scatto e annunciò con un sorriso di trionfo: «Ecco la risposta.»

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