Читаем Le sabbie di Marte полностью

In quel momento stava parlando il dottor Scott. Scott gli parve uno di quei tipi sgradevoli che intendono imporre il proprio punto di vista su qualsiasi argomento. Il suo avversario più congeniale era Bradley, lo specialista in elettronica e in scienza delle comunicazioni, un personaggio cinico, asciutto, che sembrava prendere un piacere enorme a sabotare verbalmente il prossimo. Il piccolo matematico scozzese Mackay entrava ogni tanto nella battaglia esprimendosi con frasi brevi e precise, quasi pedanti.

Il capitano Norden, apparentemente, si comportava come un arbitro non del tutto disinteressato, sostenendo ora l’uno ora l’altro nel tentativo d’impedire una vittoria decisiva. Il giovane Spencer era già al lavoro, mentre Hilton, il solo membro dell’equipaggio che, Gibson non avesse ancora notato, non prendeva parte alla discussione. L’ingegnere se ne stava tranquillamente seduto a osservare gli altri con interesse distaccato. La sua faccia sembrò stranamente familiare a Gibson. Dove l’aveva già incontrato? Ma certo! Che imbecille a non capirlo subito! Quello era il famoso Hilton. Lo scrittore si girò sulla sedia per guardarlo meglio. Aveva completamente dimenticato la colazione consumata a metà, e guardava con rispetto misto a invidia l’uomo che aveva riportato l’Arcturus su Marte dopo la più grande avventura nella storia del volo spaziale.

Soltanto sei uomini erano arrivati fino a Saturno, e soltanto tre di loro erano ancora vivi. Hilton aveva sostato con i suoi compagni perduti su quei pianeti lontani, i cui stessi nomi sapevano di magia: Titano, Enceladus, Teti, Rea, Dione… Aveva visto lo splendore incomparabile dei grandi anelli che cerchiano simmetricamente il cielo e sembrano troppo perfetti per essere opera della natura. Era stato in quell’Ultima Thule in cui roteano i freddi giganti esiliati della dispersa famiglia solare, ed era tornato alla luce e al calore dei mondi interni.

Il gruppo si stava sciogliendo e i vari ufficiali se ne andavano volteggiando verso i loro posti, ma i pensieri di Gibson ruotavano ancora intorno a Saturno quando il capitano Norden gli si avvicinò interrompendo le sue fantasie.

«Non so che programma vi siete fatto» disse «ma credo che vi farà piacere dare un’occhiata alla nostra nave. Dopotutto, nei vostri romanzi fate spesso ricorso alla descrizione particolareggiata.»

Durante le due ore che seguirono, svolazzarono per il labirinto di corridoi che intersecavano in ogni senso come arterie il corpo sferico dell’Ares.

Poiché la forma della nave era sferica, la sua superficie, come quella della Terra, era stata suddivisa secondo meridiani e paralleli, cosicché esistevano utili punti di riferimento geografici per muoversi al suo interno. Andare verso nord significava dirigersi alla cabina di comando e al reparto equipaggio. Un viaggio all’Equatore indicava una visita o alla grande sala da pranzo che occupava quasi tutto il piano centrale dell’astronave, oppure al ponte d’osservazione che correva tutto attorno alla nave. L’emisfero meridionale era riservato quasi esclusivamente al serbatoio del carburante, oltre che ai ripostigli per l’immagazzinaggio di macchinario vario. Adesso che aveva cessato di servirsi dei suoi motori, l’Ares era stata fatta girare nello spazio in modo che l’emisfero settentrionale si trovasse in perpetua luce, e quello meridionale, disabitato, in perpetua oscurità. Esattamente al Polo Sud c’era un boccaporto di metallo che recava una serie di sigilli ufficiali e il seguente cartello: Da aprirsi soltanto per ordine espresso del capitano o del suo facente funzioni. Dietro quel boccaporto si stendeva il lungo e stretto tubo che collegava il corpo centrale della nave con la sfera più piccola, lontana un centinaio di metri, contenente l’impianto di energia e i complessi di propulsione. Gibson si chiese che funzione avesse quel portello se nessuno poteva mai servirsene, ma poi si disse che doveva pur esserci qualche mezzo per permettere agli automi addetti alla manutenzione e dipendenti dalla commissione per l’energia atomica di raggiungere il loro posto di lavoro.

Fatto abbastanza curioso, Gibson fu impressionato non tanto dalle meraviglie tecniche e scientifiche dell’astronove, che d’altronde aveva più o meno previste, quanto dagli alloggiamenti vuoti della sezione passeggeri, una specie di alveare di cabine, vicinissime le une alle altre, che occupavano quasi tutta la zona temperata settentrionale.

Quando rientrò finalmente nella propria cabina, Gibson era esausto sia fisicamente sia mentalmente. Norden era stato una guida anche troppo pignola.

Era disteso nella cuccetta, intento ad analizzare le proprie impressioni, quando sentì bussare discretamente alla porta.

«Chi è?»

«Jim… Jim Spencer, signor Gibson. C’è un radiogramma per voi.»

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