Читаем Morire dentro полностью

Tra le persone che Selig conosceva, lui era l’unico che avesse il potere. E in più il possederlo non lo cambiava in nessun senso. Nyquist si serviva del suo dono con la stessa semplicità e naturalezza con cui si serviva dei suoi occhi o delle sue gambe, a suo proprio unico vantaggio, senza scuse e senza sensi di colpa. Forse era la persona meno nevrotica che Selig avesse mai incontrato. Come mestiere faceva il predone, mettendo a frutto la capacità di leggere nella mente della gente; però, come ogni animale della giungla, assaliva soltanto quando era affamato, mai per il puro gusto di assalire. Prendeva quello che gli serviva, senza mai mettersi a discutere con la provvidenza che lo aveva reso così superbamente dotato, e prendeva soltanto quello che gli serviva, e gli serviva poco. Non aveva nessun lavoro e apparentemente non ne aveva mai avuti. Se gli servivano soldi, faceva un giretto di dieci minuti in Wall Street, bighellonava un po’ nei canyon tenebrosi del distretto finanziario, e andava a frugare con tutta libertà nelle menti dei finanzieri rinchiusi in quelle nobili sale consiliari. Qualunque fosse il giorno, c’era sempre qualche importante sviluppo che stava covando che avrebbe provocato un duro colpo sul mercato — una fusione di imprese, una spaccatura, una scoperta mineraria, una diceria su facili guadagni — e Nyquist non aveva difficoltà a impadronirsi dei dettagli essenziali. Le informazioni poi le vendeva a prezzi piuttosto buoni ma ragionevoli a una quindicina di investitori privati i quali, nel modo più lieto, avevano imparato che Nyquist era un informatore più che attendibile. Parecchie rapide fortune degli anni ’50 sono opera sua. In tal modo si guadagnava una vita confortevole, sufficiente per mantenersi nel tenore a lui congeniale. Aveva un appartamento piccolo in cui si stava bene, tappezzeria Naugahyde nera, lampade Tiffany, parati alla Picasso, una credenza ben fornita di liquori, uno stupendo sistema di amplificazione da cui usciva un ininterrotto flusso di Monteverdi e Palestrina, Bartok e Stravinsky. Viveva una piacevole vita da scapolo, uscendo spesso, facendo il giro dei suoi ristoranti preferiti, tutti oscuri e tipici, giapponesi, pakistani, siriani, greci. Il suo cerchio di amicizie era limitato, ma selezionato: pittori, scrittori, musicisti, poeti, soprattutto. Andava a letto con parecchie donne; Selig, però, raramente lo vide due volte con la stessa.

Come Selig, Nyquist era capace di ricevere ma incapace di trasmettere; lui, però, riusciva a trasmettere nel momento in cui la sua mente veniva sondata. E fu così che si incontrarono. Selig, appena arrivato nel palazzo, si era dedicato al suo hobby, lasciando che la sua coscienza frugasse liberamente piano per piano le menti dei suoi vicini per farsene un’idea. Saltava un po’ qui un po’ là, ispezionando questa mente e quell’altra, non trovando proprio niente che meritasse un interesse speciale, quando, di colpo: "Dimmi dove ti trovi".

Un succedersi cristallino di parole che sgorgava dalla superficie di una mente vigorosa, sicura di sé. L’affermazione arrivò con l’immediatezza di un messaggio esplicito. Selig si rese conto inoltre che non c’era stato nessun atto di trasmissione attiva; semplicemente, lui aveva trovato le parole che passivamente erano lì in attesa. Diede un’immediata risposta.

"Al 35 di Pierrepont Street."

"No, questo lo so. Intendo dire dove sei nel palazzo?"

"Quarto piano."

"Io sto all’ottavo. Come ti chiami"?

"Selig."

"Nyquist."

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