Stando sul sicuro, Selig non disse niente. Voltava la schiena a Nyquist, guardando fuori dalla finestra. Stava nevicando. Lì sotto, le strette viuzze erano ingombre di neve; neanche gli spartineve del comune potevano farcela, e regnava una strana serenità. Folate di vento sferzavano la neve mandandola alla deriva. Le macchine parcheggiate stavano scomparendo sotto il mantello bianco. Fuori c’erano soltanto pochi portinai dei condomini di quell’isolato, che spalavano con decisione. Erano tre giorni che nevicava in continuazione. La neve cadeva su tutto il Nordest. Cadeva su tutte quelle sporche città, sugli aridi suburbi, cadeva dolcemente sugli Appalachi e, più lontano, verso est, cadeva sulle onde fresche e turbolente dell’Atlantico. A New York City non si muoveva niente. Era tutto chiuso: le costruzioni adibite a ufficio, le scuole, le sale da concerto, i teatri. Le ferrovie erano fuori servizio e le autostrade erano bloccate. Negli aeroporti tutto era fermo. Le partite di pallacanestro erano state cancellate dal tabellone al Madison Square Garden. Incapace di mettersi a lavorare, Selig aveva aspettato che passasse il grosso della bufera, nell’appartamento di Nyquist, passando tanto tempo con lui che aveva finito per trovare la compagnia del suo amico soffocante e ossessiva. Quello che prima gli era sembrato divertente e brillante era diventato corrosivo e malizioso. La blanda sicurezza di Nyquist, adesso, gli pareva mediocrità tutta compiaciuta di sé; le sue casuali incursioni nella mente di Selig non erano più affettuosi gesti di intimità, ma, piuttosto, deliberati atti di aggressione. La sua abitudine di ripetere ad alta voce quello che Selig stava pensando, diventava sempre più irritante, e non c’era niente che poteva impedirglielo, a quanto pareva. Ecco che stava rifacendolo, captando un suggerimento dalla mente di Selig e declamandolo con un tono quasi canzonatorio: — Ah! Com’è grazioso! «La sua anima lentamente svanì, sentendo la neve cadere lieve lieve su tutto l’universo, e, lieve lieve, cadere, come la discesa della loro ultime fine, su tutti i vivi, su tutti i morti.» Mi piace. Che cos’è, David?
— James Joyce — disse Selig, acido. —
— Io invidio il respiro e la profondità della tua cultura. Mi piace prendere in prestito da te queste elaborate citazioni.
— Carino. E sei abituato a usarle sempre contro di me?
Nyquist, con ampi gesti, mentre Selig si allontanava dalla finestra, umilmente girò verso l’esterno le sue palme. — Mi spiace. Mi ero dimenticato che non ti faceva piacere.
— Tu, Tom, non hai mai dimenticato niente. Tu non fai mai una sola cosa a casaccio. — Poi, turbato, dal suo cattivo umore: — Cristo, ne ho avuto abbastanza di questa neve!
— La neve è generale — disse Nyquist. — Non accenna per niente a smettere. Che cosa facciamo oggi?
— Quello che abbiamo fatto ieri e l’altro ieri, immagino. Ce ne stiamo seduti, guardando i fiocchi di neve che cadono e ascoltando dischi e passando il tempo a far niente.
— Che ne dici di andare a letto?
— Non sei il mio tipo — disse Selig.
Nyquist spiattellò lì un sorriso vacuo. — Buffone. Voglio dire di andare a pescare un paio di ragazze in ozio da qualche parte in questo palazzo e di invitarle a un piccolo party. Pensi che non ci siano due femmine disponibili sotto questo tetto?
— Potremmo dare un’occhiata — disse Selig, con una scrollata di spalle. — C’è ancora un po’ di bourbon?
— Lo prendo io — rispose Nyquist.
Tirò fuori la bottiglia. Nyquist si muoveva con una strana indolenza, come in un’atmosfera densa, resistente, di mercurio o di qualche altro fluido viscoso. Selig non lo aveva mai visto affrettarsi. Era pesante senza essere grasso, un uomo dalle spalle larghe, dal collo taurino, la testa quadrata, capelli gialli rapati a zero, un naso piatto dai contorni ampi, un sorriso semplice, innocente. Ariano puro, purissimo: era scandinavo, forse uno svedese, passato in Finlandia e trapiantato negli Stati Uniti all’età di dieci anni. Conservava ancora qualche sfuggente traccia di inflessione nella pronuncia. Diceva di avere 28 anni, e a Selig, che ne aveva appena compiuti 23, sembrava un pochino più vecchio. Si era nel febbraio del 1958, in un’epoca in cui Selig conservava ancora l’illusione di potercela fare in un mondo adulto. Eisenhower era presidente, il mercato valutario era andato in malora, i crolli emotivi post-Sputnik stavano ancora turbando tutti sebbene il primo satellite spaziale americano fosse appena entrato in orbita, e la moda femminile ultimo grido era la casacca di tela. Selig abitava a Brooklyn Heights, in Pierrepont Street, e si spostava per vari giorni alla settimana nella parte bassa della Quinta Strada in un ufficio di una casa editrice per conto della quale faceva il correttore di bozze senza contratto di lavoro a tre dollari l’ora. Nyquist abitava nello stesso palazzo, quattro piani più in alto.