Читаем Morire dentro полностью

— La tua testa ne è piena zeppa. Qual è il problema, Selig? Ho guardato dentro di te e non ho visto il problema, soltanto il dolore.

— Il problema è che mi sento isolato dagli altri esseri umani.

— Isolato? Tu? Ma se tu puoi addirittura entrare nella testa della gente? Tu puoi fare una cosa che il 99,999 per cento della razza umana non può assolutamente fare. Loro sono obbligati ad arrabattarsi usando parole, approssimazioni, segnali di semafori, mentre tu vai dritto al nocciolo del significato. Come puoi considerarti isolato?

— L’informazione che mi procuro è inutile — disse Selig. — Non posso farne un punto di partenza per agire. Potrei agire allo stesso modo anche se non leggessi nel pensiero.

— Perché?

— Perché è soltanto voyeurismo. Sono uno che spia dentro di loro.

— Ti senti in colpa per questo?

— Tu no?

— Io non mi pongo domande sulle mie capacità — rispose Nyquist. — Si dà il caso che le abbia. Dal momento che le ho, me ne servo. Mi piace il tipo di vita che faccio. Mi piace come sono. Perché a te, Selig, non piace come sei?

— Dimmelo tu.

Nyquist, però, non aveva niente da dirgli, e quando lui ebbe finito il drink scese giù. Quando rientrò, il suo appartamento gli parve così estraneo che lui passò qualche minuto a toccare alcuni oggetti familiari: la fotografia dei suoi genitori; la sua piccola collezione di lettere d’amore dell’adolescenza, il giocattolo di plastica che lo psichiatra gli aveva dato anni prima. La presenza di Nyquist continuava a ronzargli in testa, un rimasuglio della visita, niente di più, perché Selig era sicuro che Nyquist adesso non lo stava sondando. Si sentiva così in subbuglio per il loro incontro, così disturbato dentro, che decise di non rivederlo mai più, di traslocare da qualche parte il più presto possibile, a Manhattan, a Filadelfia, a Los Angeles, da qualunque parte purché fosse fuori tiro da Nyquist. Per tutta la vita aveva sognato di incontrare qualcuno che condivideva il suo stesso dono, e, adesso che lo aveva incontrato, se ne sentiva minacciato. Nyquist controllava attentamente la sua esistenza da riuscire terrificante. Mi umilierà, pensò Selig. Mi distruggerà. Però quel panico svanì. Due giorni più tardi Nyquist tornò più volte all’attacco per chiedergli di uscire a cena. Mangiarono in un ristorante messicano da quelle parti, concedendosi carta bianca. Sembrò ancora a Selig che Nyquist stesse giocando con lui, stuzzicandolo, tenendolo a distanza e solleticandolo; però lo faceva tanto amabilmente che Selig non provò nessun risentimento. Il fascino di Nyquist era irresistibile, e la sua forza meritava di essere presa come modello di comportamento. Nyquist sembrava un fratello più vecchio che lo aveva preceduto in quella valle di traumi e ne era emerso indenne tanto tempo prima; adesso stava prendendosi gioco di Selig per portarlo ad accettare i termini della sua esistenza. La condizione superumana, così la chiamava Nyquist.

Divennero intimi amici. Uscivano insieme due o tre volte alla settimana, mangiavano insieme, bevevano insieme. Selig aveva sempre immaginato che l’amicizia con qualcun altro di quel genere sarebbe stata unica, intensa, ma non così; dopo la prima settimana, davano per scontata la loro particolarità e quasi mai discussero del dono che condividevano. Non accadde mai che si congratulassero l’un l’altro per aver formato un’alleanza contro il mondo non dotato che il circondava. Loro comunicavano certe volte a parole, certe volte per contatto mentale diretto; diventò un rapporto di amicizia piacevole, allegro, messo alla prova soltanto quando Selig scivolava in quello stato d’animo tutto rimuginazioni che gli era abituale: allora Nyquist lo prendeva in giro per la sua autocommiserazione. Però anche questo non rappresentò un vero ostacolo fra loro prima dei giorni della tormenta di neve, quando tutte le tensioni furono moltiplicate dal fatto che stavano passando troppo tempo insieme.

— Prendi il tuo bicchiere — disse Nyquist.

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