Читаем Morire dentro полностью

Il contatto mentale era stupendamente intimo. Era quasi un fatto sessuale. Come se lui fosse scivolato in un corpo, non in una mente, e rimase sconcertato dalla risonante mascolinità dell’anima in cui era entrato; aveva l’impressione che ci fosse qualcosa di assolutamente illecito in una simile intimità con un altro uomo. Però non si ritirò. Questo rapido scambio di comunicazione verbale attraverso la gola dell’oscurità era un’esperienza deliziosa, troppo gratificante per rifiutarla. Selig provò la momentanea illusione di aver esteso i suoi poteri, di aver imparato a inviare messaggi alle altre menti tanto bene quanto sapeva tirarli fuori. Era, e lo sapeva, soltanto un’illusione. Lui non stava trasmettendo niente, e neanche Nyquist. Lui e Nyquist si erano limitati a captare informazioni l’uno nella mente dell’altro. Ognuno di loro aveva messo lì delle frasi perché l’altro le trovasse, il che, in termini di dinamica situazionale, non era per niente la stessa cosa che mandare messaggi a un altro. Tuttavia era una distinzione sottile e assolutamente priva di importanza; il netto effetto di contatto di due ricettori completamente spalancati era un efficiente circuito rice-trasmittente confrontabile a un circuito telefonico. Un vero e proprio matrimonio tra due menti, per l’esistenza del quale non potevano esserci impedimenti. A titolo di prova, volontariamente, Selig avanzò nei livelli più profondi della coscienza di Nyquist, cercando di afferrare l’uomo con la stessa nitidezza con cui aveva afferrato i messaggi, e nel farlo arrivò a un’indistinta consapevolezza di inquietudine nel profondo della sua mente, probabilmente un indice del fatto che Nyquist stava facendo lo stesso con lui; Per lunghissimi minuti si esplorarono l’un l’altro come innamorati che si avvinghiano nelle prime carezze di scoperta reciproca, anche se non c’era niente di amabile nel tocco di Nyquist, freddo e impersonale. Ciononostante Selig fremeva; si sentiva come sull’orlo di un abisso. Alla fine dolcemente si ritirò, e altrettanto Nyquist. Poi, proveniente dall’altro:

"Sali su. Ti aspetto alla porta dell’ascensore".

Era più grosso di quello che Selig si aspettava, un pezzo d’uomo, occhi azzurri poco attraenti, un sorriso puramente formale. Era distante senza essere veramente freddo. Andarono nel suo appartamento: luci morbide, una musica insolita, un’atmosfera di eleganza non vistosa. Nyquist gli offrì un drink e conversarono, mantenendosi fuori il più possibile l’uno dalla mente dell’altro. Fu una visita piena di cautela, per niente sentimentale, niente lacrime di gioia per essersi finalmente trovati insieme. Nyquist si dimostrò affabile, accessibile, soddisfatto che Selig fosse apparso, ma nient’affatto in delirio per l’eccitazione di aver scoperto un compagno di anormalità. Era anche possibile che fosse così perché lui si era imbattuto in altri fratelli di anormalità in precedenza. — Ce ne sono altri — disse lui. — Tu sei il terzo, quarto, quinto che ho incontrato io da quando sono arrivato negli Stati Uniti. Vediamo un po’: uno a Chicago, uno a San Francisco, uno a Miami, uno a Minneapolis. Tu sei il quinto. Due donne, tre uomini.

— Sei ancora in contatto con gli altri?

— No.

— Che cos’è successo?

— Mi sono fatto da parte — disse Nyquist. — Che ti aspettavi? Che avessimo formato un clan? Ma pensaci, noi parliamo, giochiamo con le nostre menti, finiamo per conoscerci, e dopo un po’ ci scocciamo. Penso che due di loro, adesso, siano morti. Non ho nessuna intenzione di restare isolato dal resto dei miei simili. Non penso affatto a me come a un membro di una tribù.

— Io non ne ho mai incontrato un altro — disse Selig. — Prima d’oggi.

— Non è una cosa importante. Quello che importa è vivere la propria vita. Quanti anni avevi quando hai scoperto che riuscivi?

— Non lo so. Avevo cinque o sei anni, forse. E tu?

— Non mi sono reso conto di possedere qualcosa di speciale prima degli undici anni. Pensavo che tutti potessero farlo. Fu soltanto dopo il mio arrivo in America, quando ho sentito la gente parlare una lingua diversa, che ho capito di avere nella mente qualcosa fuori dal comune.

— Che lavoro fai? — chiese Selig.

— Lavoro meno che posso — fu la risposta di Nyquist. Fece un largo sorriso e bruscamente insinuò i suoi sensori nella mente di Selig. Pareva quasi una specie di invito; Selig accettò e spinse avanti le sue antenne personali. Vagando nella coscienza dell’altro uomo, rapidamente afferrò il quadro delle uscite di Nyquist in Wall Street. Vide tutta la vita di quell’uomo, equilibrata, ritmata, senza ossessioni. Era stupito dalla freddezza di Nyquist, dalla sua integrità, dalla sua chiarezza di spirito. Com’era limpido lo spirito di Nyquist! Quanto poco l’aveva segnato la vita! Dove la teneva la sua angoscia? Dov’era nascosta la sua solitudine, la sua paura, la sua insicurezza? Nyquist, ritirandosi, disse: — Perché provi tanto dolore per te stesso?

— Io?

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