Ripiombò sulla Terra. Nel bel mezzo del funerale silente. Tutto bene, lascia perdere, se è questo che vuoi. Va bene. Fermati, per un secondo. Fermati e poi prega, Selig. Prega.
Lunedì. I postumi sono passati. Il cervello ha ricominciato a funzionare una volta ancora. In una gloriosa vampata di parossismo creativo, riscrivo
— Come hai avuto il mio numero?
— Da Claude. Il professor Guermantes. — Quel diavolo effemminato. Quello sa tutto. — Senti, adesso, in questo preciso momento, cosa stai facendo?
— Ho in testa di farmi una bella doccia. Ho lavorato tutta la mattina e puzzo come una capra.
— Ma che cavolo di lavoro fai?
— Stendo i compiti finali per degli studenti della Columbia.
Lei ci pensa su un momento. — Certo che tu sei un uomo strano, bello mio. Dico sul serio: che cosa fai?
— Te l’ho appena detto.
Un lungo silenzio. Sta assimilando. Poi — Okay. Posso capirlo. Tu stendi compiti finali. Senti, Dave, fatti la tua doccia. Quanto tempo ci vuole, in metrò, per casa tua venendo dalla 110a
Strada a Broadway?— Quaranta minuti, se becchi subito il treno.
— Magnifico! Allora ti vedo tra un’ora. —
Scrollo le spalle. Una vacca cocciuta! Dave, mi chiama. Nessuno mi chiama Dave. Mi spoglio, mi avvio sotto la doccia, mi insapono con tutta comodità, a lungo. Poi, buttandosi sul letto in un raro interludio di relax, Dave Selig rilegge le fatiche del mattino e prova piacere per quello che ha scritto. Puoi contarci: ci proverà piacere anche Lumumba. Poi prendo il libro di Updike. Lo apro a pagina quattro e il telefono squilla ancora. Lisa: è alla stazione della 225a
; adesso ha bisogno di sapere come trovare il mio appartamento. Sta diventando qualcosa di più di un gioco, adesso. Perché mi si è appiccicata così ostinatamente? Ma sì, okay. Posso stare al suo gioco. Le do le istruzioni necessarie. Dieci minuti dopo, un colpetto alla porta. È Lisa in un ruvido maglione nero, lo stesso di sabato notte, e attillati blue jeans. Un sorriso timido, stranamente fuori tono in lei. — Ciao — dice. Cerca di mettersi a suo agio. — Quando ti ho visto per la prima volta, ho avuto questa intuizione, un lampo:— C’era un tempo.
— Che cosa?
— Sono fatti miei saperlo e fatti tuoi scoprirlo — ribatto. E, raccogliendo tutte le mie forze, insinuo la mia mente nella sua. È un brutale assalto frontale, un violentarla, una scopata mentale. Naturalmente lei non prova niente. Dico: — Possedevo un dono speciale, veramente. Adesso se n’è andato quasi del tutto, ma talvolta si rifà vivo, e si dà il caso che io stia usandolo su di te proprio in questo preciso istante.