— Non lo so. Ritiene Claude un essere sinistro. Un avventuriero. — La sua voce è improvvisamente piatta e opaca. — Forse è proprio geloso. Lo sa che vado ancora a letto con Claude. Oh, Cristo, Duv, perché stiamo ancora litigando? Perché non ce la facciamo a
— Non sono mica io che litigo. Non sono mica stato io ad alzare la voce.
— Mi provochi. Fai sempre così. Tu spii dentro di me, poi mi provochi e tenti di buttarmi a terra.
— Le vecchie abitudini sono lente a morire, Jude. Comunque, dico sul serio: io non sono per nulla arrabbiato con te.
— Sembri così soddisfatto di te.
— Io
— Non lo so. Proprio non lo so. — Una concessione inattesa: — Forse
— Tenterò.
— Sono preoccupata per te. Duv. — Sì, ecco il punto. — Sembravi così abbattuto sabato sera.
— Ne ho proprio passate di tutti i colori. Ma me la caverò. — Non mi sento come uno che parla di se stesso. La sua pietà non mi serve, perché una volta ottenuta la sua, dovrò cominciare ad avere io pietà per me. — Senti, ti telefonerò quanto prima, okay?
— Sei così mal ridotto, Duv?
— Mi sto adattando. Sto accettando la situazione. Voglio dire, andrà tutto bene. Stammi bene, Jude. Salutami tanto Karl. — E Claude, aggiungo, mentre metto giù la cornetta.
Mercoledì mattina. Scendo in centro per consegnare la mia ultima infornata di capolavori. È addirittura più freddo di ieri, l’aria più limpida, il sole più splendente, più remoto. Quanto sembra arido il mondo. L’umidità è meno del 60 per cento, credo. È proprio il tipo di clima nel quale ero solito funzionare con una sconvolgente chiarezza di percezione. Invece oggi sono riuscito a fatica ad afferrare qualche cosettina nel tragitto in metrò fino alla Columbia, piccoli rumori vaghi e squittii, niente che avesse senso. Non ho più la sicurezza di possedere ancora il potere, ogni giorno che passa. Oggi è uno dei giorni no. Imprevedibile. Ecco che cosa sei tu che vivi nella mia mente: imprevedibile. Stai colpendo a casaccio nella tua agonia. Me ne vado al mio solito posto e aspetto i clienti. Loro arrivano, ritirano quello per cui sono venuti, mi sganciano i verdoni. David Selig, benefattore del mondo studentesco. Vedo Yahya Lumumba come una nera sequoia che percorre la sua strada venendo verso di me dalla Butler Library. Perché sto tremando? È colpa dell’aria frizzante, senz’altro, l’allusione all’inverno, la morte dell’anno. Mentre si avvicina, la star della pallacanestro ondeggia, annuisce con il capo, sorride; tutti lo conoscono, tutti lo chiamano ad alta voce. Provo un senso di partecipazione alla sua gloria. Forse, all’inizio della stagione andrò a vedere le sue partite.
— Hai portato i fogli, vecchio mio?
— Sì, li ho qui. — Li tiro fuori dal mucchio. — Eschilo, Sofocle, Euripide. Sei pagine. Fanno 21 dollari, meno i cinque che già mi hai dato vengono 16 dollari.
— Piano, piano, vecchio mio. — Si mette a sedere accanto a me sui gradini. — Prima devo leggermi questa roba, d’accordo? Come faccio a sapere che hai fatto un lavoro come si deve se non lo leggo?
Lo osservo mentre legge. In un certo senso mi aspetto di vederlo muovere le labbra, incespicare sulle parole che non gli sono familiari, invece no, i suoi occhi scorrono velocissimi sulle righe. Si morde le labbra. Legge sempre più veloce, girando le pagine con impazienza. Mi guarda a lungo e c’è la morte nei suoi occhi.
— Questa è merda, vecchio mio — dice. — Voglio dire, che questa qui è proprio merda. Che razza di porcheria hai buttato giù?
— Ti garantisco che prenderai un "ottimo". Non mi pagherai fino a quando non avrai preso il voto. Se prendi meno di "ottimo"…