Comincio ad andarmene. Lui mi acchiappa — il suo braccio, completamente steso verso di me, dev’essere lungo quanto una delle mie gambe — e mi tira verso di lui. Comincia a scrollarmi. Sto battendo i denti. Lui ha un sorriso più largo che mai, però i suoi occhi sono demoniaci. Agito i miei pugni verso di lui, però, con le braccia che ha, non arrivo neanche a toccarlo. Mi metto a urlare. Si riunisce una folla. Di colpo ci sono tre o quattro altri uomini con i giaccotti da universitari che ci circondano, tutti neri, tutti giganteschi, anche se non grossi come lui. I suoi compagni di squadra. Ridono, schiamazzano, saltellano. Per loro io sono soltanto un burattino. — Ehi! Ti disturba? — chiede uno di loro. — Ti serve aiuto, Yahya? — strilla un altro. — Cosa t’ha fatto quel fottuto merdone vociante? — urla un terzo. Formano un anello e Lumumba mi spinge verso l’uomo alla sua sinistra, che mi afferra, e mi sballottano qui è là nel cerchio. Giro vorticosamente; incespico; barcollo; loro non mi lasciano mai cadere. Intorno e intorno e intorno. Una gomitata mi esplode sulle labbra. Sento sapore di sangue. Qualcuno mi schiaffeggia violentemente, e la mia testa rimbalza all’indietro. Dita tese mi si conficcano nelle costole. Sento che mi stanno facendo del male, parecchio; che insomma questi giganti stanno pestandomi ben bene. Una voce che mi sembra vagamente la mia offre a Lumumba il rimborso, ma nessuno ci fa caso. Loro continuano a farmi girare dall’uno all’altro. Adesso niente schiaffi, niente colpi secchi, ma pugni. Dov’è la polizia del campus? Aiuto! Aiuto! Porci poliziotti aiutatemi! Invece non viene nessuno. Non ce la faccio più a respirare. Quanto mi piacerebbe lasciarmi cadere sulle ginocchia, raggomitolarmi per terra. Loro stanno urlandomi qualcosa, epiteti razziali, parole che afferro solo vagamente, un gergo da fratelli di sangue che dev’essere stato appena inventato; io non capisco che cosa stanno urlandomi, però posso sentire l’odio in ogni sillaba. Aiuto! Aiuto! Il mondo ruota vorticosamente, selvaggiamente. Adesso lo so che cosa proverebbe una palla da canestro, se potesse provare qualcosa. Il pestaggio continua, l’annullamento di un movimento senza fine. Per favore, qualcuno, chiunque, mi aiuti, li fermi. Provo un forte dolore allo stomaco: un mucchio di metallo bianco-caldo dietro il mio sterno. Non riesco a vedere. Riesco soltanto a sentire. Dove sono i miei piedi? Finalmente sto crollando. Guardo come arrivano veloci verso di me i gradini. Il freddo bacio della pietra mi ammacca la guancia. Può darsi che abbia già perso conoscenza: come faccio a parlare? Un motivo di conforto, uno solo, c’è, almeno. Più in basso di così non posso scendere.
22
Lui era pronto per innamorarsi quando incontrò Kitty: maturo al punto giusto e impaziente: quello che ci vuole per impastarsi emotivamente. Può anche darsi che sia stata tutta una seccatura; quello che lui provò non fu tanto amore quanto piuttosto soddisfazione all’idea di essere innamorato. O forse no. Lui non ha mai compreso quello che provava per Kitty, sotto ogni aspetto. La loro storia d’amore risale all’estate del 1963; lui la ricorda come l’ultima estate di speranza e di buon umore prima del lungo autunno di caos entropico e di disperazione filosofica provocati dalla società occidentale. Era il momento in cui Jack Kennedy stava portando avanti certe cosucce, e mentre queste cosucce non stavano andandogli eccessivamente bene politicamente, lui ancora manovrava per dare l’impressione di essere lì lì per ottenere tutto con un colpo solo, se non proprio in quel preciso momento, senz’altro in una seconda e definitiva scadenza. Gli esperimenti nucleari nell’atmosfera erano appena stati banditi. Era stata installata la linea rossa Washington-Mosca. In agosto il segretario di stato Rusk annunciava che il governo Sud-vietnamita stava rapidamente prendendo il controllo delle aree supplementari del paese. Il numero degli americani morti combattendo in Vietnam non era ancora arrivato a cento.