La sua mente è obnubilata. Sta ricevendo alcune emissioni mentali da quelli che lo circondano nella corsia, ma sono sprazzi, niente di distinto; coglie le aure ma non verbalizzazioni intelligibili. Nel tentativo di tenersi su, chiede tre volte alle infermiere che passano di dirgli che ora è, perché il suo orologio da polso è partito; loro filano via, ignorandolo. Finalmente una negra massiccia, sorridente, con un abito rosa lo squadra e dice: — Un quarto alle quattro, tesoro. — Del mattino? Del pomeriggio? Probabilmente del pomeriggio, decide lui. Dalla parte opposta della corsia, in diagonale, due infermiere hanno cominciato a montare quello che forse è un sistema di nutrizione tramite ipodermoclisi, con un tubo di plastica che striscia dentro le narici di un enorme negro svenuto tutto avvolto da fasciature. Lo stomaco di Selig non dà nessun segnale di appetito. Quell’odore di sostanze chimiche nell’atmosfera di ospedale gli provoca nausea; fa fatica anche a deglutire. Gli daranno da mangiare la sera? Per quanto tempo dovrà restare lì? Chi paga? Dovrebbe chiedere di informare Judith? Sono gravi le lesioni?
Un interno entra nella corsia: un piccoletto scuro di carnagione, di poche parole, ben piantato, a lui sembra un pakistano, che si muove con precisione deliziosa. Un fazzoletto sgualcito e macchiato che sporge dal taschino sul petto, però, sciupa l’ordinato, elegante effetto della sua attillata candida uniforme. Sorprendentemente viene dritto verso Selig. — I raggi X non rivelano nessuna frattura — dice senza preamboli, con voce decisa ma piatta. — Perciò i vostri unici danni sono abrasioni minori, contusioni, tagli, e una leggerissima commozione cerebrale. Siete pronto per essere dimesso. Su, alzatevi.
— Un attimo — disse Selig senza forza. — Sono appena arrivato. Non so neppure che cosa è successo. Chi mi ha portato qui? Per quanto tempo sono rimasto senza conoscenza? Che cosa…
— Io non ne so niente. La vostra degenza è finita e l’ospedale ha bisogno del vostro letto. Per favore, in piedi, su, subito. Ho molto da fare.
— Una commozione cerebrale? Se ho una commozione cerebrale, almeno dovrei passare la notte qui. Oppure l’ho
— Siete entrato oggi verso mezzogiorno — dice l’interno, facendosi sempre più di cattivo umore. — Siete stato medicato nella sala di emergenza e vi sono stati fatti esami scrupolosissimi, dopo quel pestaggio sui gradini della Low Library. — Ancora una volta l’ordine di alzarsi, questa volta dato senza parole, uno sguardo imperioso con l’indice puntato. Selig sonda la mente dell’interno e la trova accessibile, però apparentemente non contiene nient’altro che impazienza e irritazione. Selig scende pesantemente dal letto. Il suo corpo pare tenuto insieme con il fil di ferro. Le ossa sfregano le une contro le altre, raschiando. Nel petto ha ancora l’impressione delle lacerazioni prodotte dalle punte delle costole rotte; i raggi X possono sbagliarsi? Sta per chiederlo, ma è troppo tardi. L’interno, continuando il suo giro, è passato a un altro letto.
Gli portano i suoi abiti. Lui tira la tendina e si veste. Sì, ci sono macchie di sangue sulla camicia, come aveva temuto; e anche sui calzoni. Che pasticcio. Controlla i suoi effetti personali: c’è tutto, portafogli, orologio da polso, il pettine tascabile. E adesso? Vado fuori e basta? Niente firme? Selig si muove incerto verso la porta. Entra nel corridoio senza che nessuno lo veda. Poi l’interno si materializza quasi fosse un ectoplasma e indica un’altra stanza al di là del corridoio, dicendo: — Aspettate lì fin quando non è arrivato il poliziotto di guardia. — Il poliziotto di guardia?
Come temeva, ci sono alcuni fogli da firmare prima di essere fuori dalla stretta dell’ospedale. Ha appena finito con le pratiche burocratiche quando entra nella stanza un uomo paffuto, scuro in volto, sulla sessantina, con indosso l’uniforme del corpo di sicurezza del campus, che sbuffa un po’, e dice: — Siete voi Selig?
Lui ammette di esserlo.
— Il preside vuole vedervi. Siete capace di camminare con le vostre gambe o volete che vi procuri una sedia a rotelle?
— Camminerò da solo — dice Selig.