Quel pomeriggio tornai a Vicksburg vecchia e una nota a piè di pagina mi rimandò a
Il giorno dopo decisi di attenermi allo studio di argomenti professionali in cui ero debole, perché ero certa che una volta che i miei precettori (chiunque fossero) mi avessero assegnato un piano educativo preciso, non avrei più avuto tempo per le mie scelte personali: l’addestramento iniziale nell’agenzia di Boss mi aveva insegnato che i giorni dovrebbero essere di ventisei ore. Ma a colazione la mia amica Anna mi chiese: — Friday, cosa puoi dirmi dell’influenza di Luigi Undicesimo sulla poesia francese?
Strizzai le palpebre. — C’è un premio in palio? Luigi Undicesimo mi pare il nome di un formaggio. E l’unico verso francese che ricordi è «Mademoiselle d’Armentières». Ammesso che sia un verso.
— Il professor Perry ha detto che bisogna rivolgersi a te.
— Ti ha presa in giro. — Quando tornai in biblioteca, papà Perry alzò la testa dalla sua consolle. Gli dissi: — Buongiorno. Anna mi ha raccontato che le avete detto di chiedere a me degli effetti di Luigi Undicesimo sulla lirica francese.
— Sì, sì, ovvio. Adesso ti spiacerebbe lasciarmi in pace? Ho per le mani un programma piuttosto complesso. — Riabbassò gli occhi e mi escluse dal suo mondo.
Frustrata e irritata, battei sulla tastiera
Passai il resto della giornata a informarmi sulla poesia francese dal 1450 in poi. Bella a tratti. Il francese è adatto alla poesia, più dell’inglese; ci vuole un Edgar Allan Poe per trarre dalle dissonanze dell’inglese un insieme armonico. Il tedesco è inadatto alla lirica, al punto che le traduzioni hanno un suono più dolce degli originali tedeschi. Non certo per colpa di Goethe o di Heine; è un difetto di una brutta lingua. Lo spagnolo è così musicale che uno slogan pubblicitario per un detersivo spagnolo è più gradevole del miglior verso libero in inglese; lo spagnolo è talmente bello che molta della sua poesia risulta più gradevole se chi la sente non capisce il significato.
Non scoprii mai che effetti avesse avuto Luigi XI sulla poesia, posto che ne abbia avuto qualcuno.
Una mattina trovai occupata la «mia» consolle. Lanciai uno sguardo interrogativo al bibliotecario capo. Lui parve di nuovo sulle spine. — Sì, sì, oggi è molto affollato. Friday, perché non usi il terminale nella tua stanza? Ha gli stessi comandi addizionali, e se tu avessi bisogno di consultarmi puoi farlo ancora più in fretta che qui. Batti l’interno sette e il tuo codice personale. Ordinerò al computer di darti la precedenza. Soddisfatta?
— Perfetto — accettai. Mi piaceva il caldo cameratismo della biblioteca, ma nella mia stanza potevo mettermi nuda senza temere di irritare papà Perry. — Oggi cosa devo studiare?
— Dèi del cielo. Non c’è qualche argomento che ti interessi e meriti ulteriori approfondimenti? Disturbare il Numero Uno non mi va.
Andai nella mia stanza e tornai alla storia francese da Luigi XI in poi e questo mi portò alle nuove colonie sull’altro lato dell’Atlantico e questo mi portò all’economia e questo mi portò ad Adam Smith, e da lì alle scienze politiche. Conclusi che Aristotele aveva avuto i suoi giorni buoni, mentre Piatone era solo un pallone gonfiato, e così successe che mi chiamarono tre volte dalla sala da pranzo, e l’ultima chiamata diceva che per i ritardatari ci sarebbero state solo razioni fredde, e ci fu anche un messaggio in diretta di Blondie che minacciò di venire a prendermi per i capelli.
Così corsi giù, a piedi nudi, ancora chiudendo le cerniere della tuta. Anna chiese cosa diavolo stessi facendo di tanto urgente da dimenticarmi di mangiare. — Non è da Friday. — Di solito lei e Blondie e io mangiavamo assieme, con o senza compagnia maschile. Gli ospiti del quartier generale erano un club, una confraternita, una famiglia rumorosa, e più di una ventina di loro erano miei «amici di bacio».
— Miglioravo il mio cervello — risposi. — Hai davanti a te la Massima Autorità Mondiale.
— Autorità su cosa? — chiese Blondie.