Pajaro Sands era un complesso alberghiero in riva al mare. È un posto dimenticato da Dio di Monterey Bay, nei pressi di una città dimenticata da Dio, Watsonville. Watsonville è uno dei grandi porti da cui parte petrolio per il mondo intero, e ha tutto il fascino di una torta vecchia e fredda, senza crema. I luoghi di divertimento più vicini sono i casinò e i bordelli di Carmel, a cinquanta chilometri di distanza. Però io non gioco e non mi interessa il sesso a pagamento, nemmeno le prestazioni esotiche che si possono trovare in California. Fra il personale di Boss, poca gente frequentava Carmel: era troppo lontano da raggiungere a cavallo (a meno di non avere un weekend libero), non c’era nessuna capsula diretta, e anche se la California è liberale nell’autorizzare i veicoli a motore, Boss concedeva i suoi Vma solo per motivi di servizio.
Per noi, i divertimenti maggiori di Pajaro Sands erano le attrattive naturali che avevano portato alla costruzione del complesso: marosi e sabbia e sole.
Il surfing mi divertì finché non diventai brava. Poi cominciò ad annoiarmi. Di solito, prendevo un po’ di sole ogni giorno e nuotavo un po’ e guardavo le grandi cisterne che si riempivano di petrolio; e notavo, divertita, che l’uomo di guardia sulla nave spesso se ne stava a guardare me, armato di binocolo.
Nessuno di noi aveva ragione d’annoiarsi; godevamo tutti di un servizio terminali completo. Oggi la gente si è talmente abituata alla rete computer che dimentica con facilità quale meravigliosa finestra sul mondo costituisca; e mi metto nel numero. Ci si può sclerotizzare nell’uso di un terminale solo per certe cose (pagare conti, fare telefonate, ascoltare notiziari) e arrivare a dimenticarne gli usi più ricchi. Se l’abbonato è pronto a pagare il servizio, con un terminale si può fare quasi tutto ciò che è possibile fare al di fuori di un letto.
Musica dal vivo? Potevo chiedere un concerto che si stesse svolgendo quella sera stessa a Berkeley; ma un concerto dato dieci anni prima a Londra, col direttore d’orchestra morto da chissà quanto tempo, era altrettanto «dal vivo», altrettanto immediato. Come i programmi in onda quel giorno. I componenti elettronici se ne fregano. Quando dati
Boss mi mandò a scuola a un terminale di computer, e io ebbi possibilità molto più ricche di quelle mai godute in anni trascorsi da chi avesse studiato a Oxford o alla Sorbona o a Heidelberg.
Dapprima non mi sembrò di essere a scuola. Il primo giorno, a colazione, mi dissero di presentarmi al bibliotecario capo. Era un vecchietto caro e rugoso, il professor Perry, che avevo già conosciuto all’addestramento di base. Pareva sulle spine; comprensibile, visto che la biblioteca di Boss era probabilmente la cosa più voluminosa e complessa che avesse traslocato dall’Impero a Pajaro Sands. Indubbiamente, il professo Perry aveva davanti a sé settimane di lavoro prima che tutto fosse in ordine; e nel frattempo, Boss si sarebbe aspettato solo la perfezione più completa. Il lavoro non era facilitato dall’eccentrica mania di Boss di insistere, per la maggior parte della biblioteca, su libri di carta anziché cassette o microfilm o dischi.
Quando andai da lui, il professor Perry si dimostrò preoccupato, poi mi indicò una consolle in un angolo. — Signorina Friday, perché non vi mettete lì?
— Cosa devo fare?
— Eh? Difficile a dirsi. Senz’altro ce lo spiegheranno. Sentite, al momento sono terribilmente occupato e mi manca il personale. Perché non prendete confidenza con le macchine studiando quello che volete?
Le macchine non avevano nulla di speciale, a parte il fatto che codici speciali davano accesso diretto a diverse grandi biblioteche, come quella di Harvard e la biblioteca di Washington dell’Unione Atlantica e quella del Museo Britannico, senza dover passare per operatori umani o reti elettroniche; oltre all’incomparabile risorsa dell’accesso diretto alla biblioteca di Boss, che avevo lì vicino. Se ne avevo voglia, potevo persino leggermi i suoi volumi rilegati sul mio terminale, girando le pagine con la tastiera, senza mai togliere i libri dalla loro atmosfera all’azoto.
Quel mattino stavo percorrendo ad alta velocità l’indice della biblioteca dell’università di Tulane (una delle migliori nella repubblica della Stella Solitaria), in cerca della storia di Vicksburg vecchia, quando inciampai in un rimando ai diversi tipi di spettri delle stelle e restai agganciata. Non ricordo perché ci fosse quel particolare rimando, ma se ne trovano in continuazione per i motivi più improbabili.
Stavo ancora leggendo dell’evoluzione delle stelle quando il professor Perry propose di andare a pranzo.
Ci andammo, ma prima io presi qualche appunto sui rami della matematica che volevo studiare. L’astrofisica è affascinante, ma bisogna saper parlare la sua lingua.