Preoccupato (i giovani vice commissari di bordo sono sempre preoccupati) il signor Woo se ne andò. Dopo un po’ si accese la spia rossa, la sirena ululò, e una voce forte disse: — Lasciamo l’orbita! Preparatevi a un aumento di peso.
Fu una giornata infame.
Tre ore di discesa fino alla superficie, due ore a terra, tre ore per tornare all’orbita stazionaria. All’andata, musica interrotta da un discorsetto sorprendentemente noioso su Avamposto; al ritorno, solo musica, e fu un po’ meglio. Le due ore a terra potevano anche essere okay, se ci avessero permesso di scendere dalla scialuppa. Ma dovemmo restare a bordo. Ci concessero di slacciare le cinture e passare a prua, in quello che veniva definito salone ma era solo uno spazio con un bar che serviva caffè e panini a un lato e portelli trasparenti sul lato opposto. Dai portelli si vedevano gli emigranti salire sul ponte sotto, e lo scarico delle merci.
Colline basse coperte di neve… una vegetazione rachitica a poca distanza da noi… vicino alla nave, edifici bassi collegati fra loro da tettoie di neve. I coloni erano imbottiti come panini giganti, ma non perdevano tempo nel correre verso gli edifici. Le merci finivano su una serie di camion a rimorchio, con motori che erano strane macchine che sbuffavano fuori nubi di fumo nero: esattamente il tipo di cose che si trovano disegnate sui libri di storia per bambini! Però quello non era un disegno.
Sentii una donna dire al suo compagno: — Ma perché qualcuno decide di vivere qui?
Il compagno uscì in una pia risposta, qualcosa sulla «volontà del Signore», e io mi allontanai. Come si può arrivare a settant’anni (tanti ne doveva avere la signora) senza sapere che nessuno «decide» di stabilirsi su Avamposto… se non nel limitatissimo senso che si «decide» di accettare l’emigrazione lì per sfuggire alla morte o al carcere a vita?
Il mio stomaco era ancora sottosopra, per cui non rischiai i panini; ma pensai che una tazza di caffè potesse farmi bene, finché non ne sentii l’odore. Dopo di che corsi ai bagni, a dritta del salone, e lì vinsi il titolo di «Friday MascellediFerro». Lo vinsi a pieno diritto, anche se io fui l’unica a saperlo: trovai i cubicoli tutti occupati e dovetti aspettare; e aspettai, a mascelle irrigidite. Dopo un secolo o due, un cubicolo si liberò e io schizzai dentro e vomitai di nuovo. Acidi e succhi gastrici, più che altro. Non avrei dovuto sentire l’odore del caffè.
Il viaggio di ritorno fu interminabile.
Sulla
Io dissi: — Jerry, cosa c’è? Quand’è che ho smesso di essere Marj per te? E perché questa etichetta inutile? Voglio solo una manciata di pillole. Quelle rosa.
— Siediti, per favore. Signorina Friday… okay, Marj… non prescriviamo quel medicinale o i suoi derivati alle giovani signore… per essere più precisi, alle giovani signore in età fertile… senza accertarci che non siano gravide. Può provocare danni al bambino.
— Oh. Calmati pure, dolcezza. Nessuno mi ha combinato lo scherzo.
— Siamo qui per scoprirlo, Marj. Se tu fossi incinta o lo diventassi, abbiamo altri medicinali adatti al tuo caso.
Ah! Il caro tesoro stava solo cercando di prendersi cura di me. — Boss, e se io ti dicessi, sul mio onore di scout, che non ho fatto niente di sconcio nei miei due ultimi periodi? Anche se ci hanno provato in parecchi. Te compreso.
— Be’, direi: «Prendi questo boccettino e portami un campione d’orina», poi prenderei un campione del sangue e della saliva. Ho già avuto a che fare con donne che non avevano combinato niente.
— Sei un cinico, Jerry.
— Sto cercando di pensare a te, cara.
— Lo so, dolcezza. Va bene, mi adatterò a questa cretineria. Se il topolino strilla…
— È una cavia.
— Se la cavia dice di sì, puoi informare quel povero esule del papa che è successo un’altra volta, e io ti offrirò una bottiglia di champagne. Questo è stato il periodo di astinenza più lungo della mia vita.