Ara fece il gesto dell’approvazione. — Su questo hai ragione. Guarda l’Imbroglione. Crede di essere furbo. Corre di qua e di là mettendo trappole e raccontando bugie. E che cosa succede? Quasi sempre cade nelle proprie trappole, e le sue menzogne diventano così complicate che non riesce a tenerne il conto. Non è una cosa intelligente. È stupida. — Fece una pausa. — Come si chiama il vostro popolo.
— Umani — risposi.
Lui ripeté la parola. — Che cosa significa?
— Persone.
Ara aggrottò la fronte. — Ma che genere di persone? Che cosa portate quando viaggiate? Qual è il vostro dono?
Derek disse: — A volte ci definiamo Homo sapiens, che significa Popolo della Saggezza.
—
Derek tacque per un momento, poi parve compiaciuto. Aveva escogitato qualcosa. — Se ti dico qualcosa di saggio, tu avrai un dono da me. Ma io non avrò niente da te. Così ti avrò dato qualcosa per niente, il che non è affatto saggio.
— Ah! — esclamò Ara. Si grattò la fronte. — Ti dimostri saggio non dicendomi niente. È questo che stai cercando di dire?
Derek fece il gesto dell’assenso.
Ara fece il gesto che significava "no". — La tua risposta non è saggia. È stupida. Tu pensi nello stesso modo dell’Imbroglione. Lui teme sempre di essere ingannato. Spreca il suo tempo cercando trucchi e menzogne dove non ce ne sono. "Quegli alberi lungo la pista nascondono una trappola" dice. "Una buca profonda o un cappio legato a un alberello. Non sono uno sciocco. Passerò per quel campo." E lascia la strada sicura, percorsa dalle persone, e va a impigliarsi in qualche roveto o a cadere in un pantano. Se questo è il meglio che puoi offrire, non credo che il tuo sia il Popolo della Saggezza.
Guardai Derek. La sua faccia era paonazza. Aprì la bocca, poi la chiuse. Non intendeva litigare con Ara. Potevo capirlo. Ara era molto grosso e non particolarmente garbato. Era Inzara quello che amava andare d’accordo con la gente. Ara non sembrava curarsene.
— Quasi sempre — dissi — prendiamo il nome dal luogo nel quale viviamo. Derek è un Angelino, perché la sua gente vive in un posto chiamato Los Angeles. Io sono Hawaiana. Vengo da un’isola chiamata Hawaii.
Non era l’esatta verità. Venivo dall’isola di Kauai. Ma non conoscevo la parola per definire un gruppo di isole. Mandria? Branco? Mucchio? Composizione? Raduno? Non conoscendo la parola, non potevo dire che venivo dalle Isole Hawaii.
Ara aggrottò di nuovo la fronte. — Avete un sacco di nomi per definirvi. Non sapete decidere che cosa siete?
— No — risposi.
— Ah. Be’, se incontrerò altre persone senza pelo, chiederò loro un nome. Forse troveranno una risposta migliore della vostra. — Voltò il suo animale e si allontanò lungo la pista.
— Mi piaceva la mia risposta — disse Derek. — Immagino che questa gente non apprezzi l’umorismo. — Usò il termine inglese. Esisteva una parola indigena? Non lo sapevo.
Nia prese i cornacurve. Montammo in sella in due su ciascuno, Nia dietro l’oracolo, Derek dietro di me. In quel modo attraversammo il fiume. Nel punto più profondo l’acqua arrivava alla pancia dei nostri animali. Dovetti sollevare i piedi per evitare di bagnarli. Derek non se ne preoccupò. Come sempre, viaggiava a piedi nudi. Diceva che l’acqua gli dava una sensazione piacevole.
Sull’altra sponda Nia e Derek smontarono. Trovammo la pista. Si dirigeva a sud-ovest lungo il fiume. La seguimmo.
PARTE SECONDA
Tanajin
Quella sera ci accampammo in un boschetto in prossimità del fiume. Mangiammo quel che restava dei nostri viveri.
Nia disse: — Domani andrò a caccia.
Derek fece il gesto dell’assenso e poi quello dell’inclusione. Insieme significavano "verrò a caccia anch’io"…
Pensai di chiamare la nave, ma ero stanca e depressa e non me la sentivo di conversare con Eddie.
Durante la notte cadde un po’ di pioggia. Mi svegliai e sentii il leggero picchiettio sul fogliame sopra di me. Non doveva essere una gran pioggia. Non passava fra le foglie. Restai in ascolto per un po’, poi mi riaddormentai.
Al mattino la pioggia era cessata, ma il cielo rimaneva nuvoloso. Nia e Derek andarono a caccia. Io e l’oracolo proseguimmo lungo la pista. Sulla nostra destra avevamo boschetti di erba enorme, sulla sinistra c’era il fiume. Scorreva su pietre gialle e fra macchie di canneti di un color porpora spento. C’erano uccelli abbarbicati alle canne che emettevano gorgoglii.
Pensai alla colazione. Anche il mio stomaco gorgogliava, facendo lo stesso suono degli uccelli. — Raccontami una storia.
— Di che genere? — chiese l’oracolo.
— Una storia importante. Una storia su qualcosa che importi.
— Ti parlerò della luna.
— Quale?
— Quella grande. Non è sempre stata alta nel cielo. Un tempo si trovava quaggiù al suolo. La conservava la Madre delle Madri. Era la sua pentola per cucinare. La pentola era in grado di riempirsi da sola. Non aveva bisogno di aiuto da nessuno.
Pensai di chiedergli di raccontare una storia diversa.