Adesso capiva che arrivare presto all’aeroporto era stato un errore. Il liquore bevuto la sera prima non faceva più effetto. Si sentiva irrequieto e avvertiva una vaga sensazione di nausea, nonostante che avesse preso la solita capsula di ossigeno e acido ascorbico. Gli restava troppo tempo per pensare al futuro immediato. In teoria, era possibile che si trovasse impegnato in un’azione della squadra Primitivi quel pomeriggio stesso. Ogni volta che quel pensiero gli si presentava, lo faceva trasalire. Fissò le cime lontane delle Montagne Rocciose con un insieme di nostalgia e risentimento. “Non voglio andare in Africa” pensò. “E, soprattutto, non voglio avere a che fare con nessun primitivo. Ma com’è successo?” Improvvisamente gli tornò tutta la rabbia nei confronti di Athene.
S’incamminò verso una fila di cabine telefoniche, imprecando sottovoce; poi ricordò che non aveva niente da dirle. A livello pratico, concreto, avrebbe potuto informarla che partiva; solo che a quello ci avrebbe pensato automaticamente il computer della Farma, al primo pagamento di crediti. A livello emotivo, avrebbe voluto dirle: — Vedi cos’hai fatto? Mi hai spinto a scappare in Africa, dove un primitivo potrebbe uccidermi. — Ma persino quella rivincita infantile gli era negata, un po’ per il suo orgoglio e un po’ perché sapeva che la persona con cui voleva parlare, la vecchia Athene, non esisteva più. Era del tutto inutile parlare a quella sconosciuta dagli occhi implacabili che ora viveva nel corpo di Athene. Di colpo ripensò a quanto fosse sempre stato orgoglioso del suo matrimonio singolo, così bizzarro, fuori moda… Un’unione che era sopravvissuta di poche ore alla sua presunta impotenza. Persino il modo in cui lei gli aveva confessato la verità aveva qualcosa da insegnargli. Athene non aveva dimostrato nessun rimpianto, nessuna emozione; solo un disprezzo totale per l’oggetto neutro che un tempo era suo marito. “Soltanto poche ore! Ma che schifo di…”
Si accorse che gli altri passeggeri in attesa del volo lo fissavano. Allentò la stretta sulla valigia, si costrinse a sorridere a una donna vestita di rosa che gli sedeva accanto con un bambino in grembo. La donna lo fissò senza restituire il sorriso. Dopo un po’ lui si allontanò, andò a prendersi un caffetè al distributore automatico, lo bevve distrattamente. Quando annunciarono il suo volo, si spostò con gli altri sulla cinghia mobile. Il primo strattone della cinghia gli ricordò che il viaggio era ormai iniziato e lo precipitò di nuovo nel panico. Si costrinse a rilassarsi, a calmare il ritmo del respiro finché non fosse giunto a bordo dell’aereo, dove avrebbe potuto abbandonarsi alle preoccupazioni per la propria incolumità fisica.
Nei suoi quarant’anni di vita, aveva fatto un centinaio di viaggi su aerei di linea; e non riusciva a ricordarne nemmeno uno in cui non avesse riscontrato, nell’apparecchio o nella strumentazione, un difetto minimo ma potenzialmente fatale. Poteva trattarsi di un, lieve odore di bruciato, di una traccia d’umidità sui serbatoi all’estremità alare, di una nota insolita nel ronzio del motore: tutte cose che un professionista del volo non si sarebbe preso il disturbo di notare, ma che risultavano fin troppo ovvie ai sensi tesi di un dilettante intelligente. In questo caso, non era troppo soddisfatto della bombola a pressione che, nell’eventualità di un disastro, avrebbe fatto uscire, dallo schienale del sedile di fronte a lui un grande pallone di plastica, avvolgendolo completamente. Gli sembrava che la bombola non fosse perfettamente allineata col boccaglio. Quindi, poteva darsi che la bombola non fosse più sigillata, che il gas fosse già uscito.
Stava per chiedere allo steward ogni quanto tempo venisse controllata la pressione delle bombole, quando una donna gli si sedette a fianco. Era vestita di rosa. Stava cercando, senza riuscirci, di slacciare la fibbia dello zaino che conteneva un bambino. Carewe riconobbe la donna che aveva già visto all’aeroporto.
— Permettetemi — le disse, in un gesto di cortesia ormai passato di moda. Infilò un dito sotto la fibbia, sollevò il coperchietto di plastica, fece scattare la molla, e la fibbia si aprì.
— Grazie. — La donna tolse il bambino, che se ne stava zitto, dallo zaino e se lo mise in grembo. Carewe ripiegò lo zaino, lo infilò sotto il sedile della donna, si appoggiò all’indietro sullo schienale; poi si chiese se dovesse dirle che il fermaglio della fibbia gli era sembrato mostruosamente debole. Decise di no. La donna non dimostrava troppa fiducia nei suoi confronti, per non dire che gli era apertamente ostile. Comunque, la sua mente si soffermò a riflettere sull’aspetto curioso della fibbia in acciaio inossidabile. In un punto, il metallo era sottile come un foglio di carta. Sembrava quasi (un pensiero inquietante si agitò ai livelli più bassi di coscienza) che risalisse a molto, molto tempo addietro. Lo sapevano tutti che l’acciaio poteva resistere per decenni prima di…