Читаем Un milione di domani полностью

Un sole parzialmente occultato dalle nuvole stava calando all’orizzonte quando Carewe arrivò a Drumheller. Contando i chilometri, si allontanò dal centro sulla radiale tre. Adesso che era giunto il momento, la prospettiva di dare l’assalto a un laboratorio presumibilmente pieno di guardie era più spaventosa di quanto non avesse immaginato. La certezza di aver scoperto dove si trovasse Athene cominciava già a svanire, ed era quasi scomparsa quando lui fermò la pallottola sulla strada. Si era lasciato alle spalle le luci tenui della città da diversi minuti. Lungo il chilometro dodici si trovavano soltanto due edifici, che sullo sfondo dell’erba onnipresente sembravano finti, messi lì per una ripresa cinematografica. Uno era senz’altro un magazzino, e l’altro una struttura lunga, a più piani, appollaiata in cima a una collina. Un sentiero in terra battuta congiungeva la strada al cancello che si apriva nella parete di metallo che circondava l’edificio, Carewe cercò con gli occhi segni di attività, ma il laboratorio, tinto di rosso dal sole al tramonto, sembrava abbandonato da secoli, quasi a testimoniare l’antica presenza di una civiltà scomparsa.

Procedette ancora un po’ lungo la strada, fino a trovarsi al di fuori della visuale di un eventuale osservatore sulla collina, e spense il motore della pallottola. Ignorando le occhiate curiose che gli lanciavano i passeggeri dei veicoli in transito, restò seduto tranquillamente, inattesa che il cielo si oscurasse, che svanisse il rosa corallo delle scie di condensazione. Quando s’incamminò su per la collina, l’aria era fresca e tirava una brezza leggera. Giunto più vicino al laboratorio si sentì rassicurato scoprendo che usciva luce dalle finestre ai piani superiori; però si accorse anche che il percorso offriva una copertura scarsissima. Poteva solo sperare che Barenboim non avesse preso la precauzione di disporre sensori di calore o analizzatori agli infrarossi.

La sensazione di essere completamente esposto durò finché non giunse sotto il muro perimetrale, alto più di tre metri. Studiandolo da vicino, scoprì che si trattava di una lega metallica assolutamente liscia, che non offriva il minimo appiglio. Carewe provò a fare un salto, per assicurarsi che non gli fosse possibile raggiungere la cima con le dita, poi s’incamminò lungo la base del muro, girò attorno all’edificio e finalmente raggiunse il cancello. Il muro era liscio, impossibile da scalare per tutta la sua estensione, e il cancello, ovviamente chiuso, appariva altrettanto scoraggiante. Disperato, lasciò vagare lo sguardo sull’erba, illuminata a tratti dalle luci che uscivano dalle finestre. Will Carewe, guastatore dilettante, si era fermato davanti al primo semplicissimo ostacolo, una parete composta di fogli metallici che con ogni probabilità sarebbe riuscito a bucare con un comune apriscatole…

Spinto dall’ispirazione, tolse l’accetta dallo zaino e raggiunse il lato del muro più lontano dalla strada. Poi sferrò un colpo vicino all’angolo, e l’accetta penetrò nel metallo grigio, facendo pochissimo rumore. Aspettò cinque minuti, ma dall’interno non giunsero segni di vita: allora si rimise all’opera, cercando di calibrare i colpi. In pochi minuti aveva ritagliato nel metallo una V capovolta, alta un metro, che riuscì a piegare fino a terra. Dietro c’era una cavità grande abbastanza da contenere i pali di sostegno, e più avanti un altro foglio di metallo. Il foglio interno gli procurò maggiori difficoltà, perché non aveva molto spazio per muoversi; ma procedendo con calma, concedendosi soste frequenti, riuscì a ritagliare un’ altra apertura. Spinse in avanti di qualche centimetro la punta di metallo e guardò. Aveva davanti una spianata di cemento,poco illuminata, chiusa a un lato da una parete del laboratorio. A quanto sembrava, nessuno si era accorto di lui.

S’infilò il coltello alla cintura, e attraversò il muro tenendo in mano l’accetta. Il metallo che aveva ritagliato ritornò a posto da solo, rendendo meno visibili le tracce del suo passaggio. Carewe lo stava sistemando per bene, quando un fascio di luce improvvisa proiettò ombre sul muro. Si voltò di scatto sollevando l’accetta, e intravvide i fanali di un’auto che doveva essere entrata dal cancello. La luce forte dei fari, riflessa e incanalata nel poco spazio tra il laboratorio e il muro esterno, sembrava riempire l’intero universo. Impossibile che l’autista non l’avesse visto, eppure il veicolo proseguì la corsa, sparendo dietro l’angolo più lontano del laboratorio.

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