Voleva dire che non si erano accorti di lui? Oppure che l’autista possedeva riflessi tanto pronti da fingere di non averlo visto? Carewe infilò l’accetta nella calzamaglia, all’altezza della vita, e corse alla parete più vicina dell’edificio. Si attaccò a una grondaia e si arrampicò, usando doti istintive potenziate dalla paura. Il tetto del laboratorio era piatto e sporgente, Mentre Carewe si tirava su, l’accetta si sfilò dalla calzamaglia e cadde a terra, rimbombando forte sul cemento. Carewe si appiattì sul tetto; poi si accorse che il tetto era a terrazze, che aveva raggiunto quella più bassa, e che le finestre del primo piano del laboratorio si affacciavano lì. Corse ad acquattarsi in un angolo, tenendo la testa appena al di sotto dei davanzali delle finestre. Trascorsero cinque, dieci minuti, prima che lui ammettesse che non avevano ancora scoperto la sua presenza. Sentì tornare l’ottimismo che lo aveva spinto a lanciarsi nell’impresa, e si guardò attorno.
Da dove si trovava, poteva vedere la distesa d’erba oltre il muro di recinzione: una prateria grigia che svaniva verso nord, immersa nella quiete più totale. Da quel lato, nessun pericolo. Della fila di finestre sopra la sua testa, una sola era illuminata. Strisciò fino ad arrivarvi sotto, si alzò in piedi con cautela e diede un’occhiata all’interno. La stanza era piccola. Conteneva soltanto una sedia e una brandirla su cui era sdraiata una donna. Teneva la schiena voltata alla finestra, ma Carewe riconobbe immediatamente la curva languida dell’anca: con gli occhi, col cervello, con ogni molecola del suo corpo.
Athene!
Bussò istintivamente sul vetro, e subito ne fu terrorizzato. Poteva esserci qualcun altro in un angolo della stanza che lui non riusciva a vedere. Athene sollevò leggermente la testa, tornò immobile. Carewe aspettò per qualche terribile secondo, poi bussò di nuovo e restò a osservare la reazione di Athene. Lei sollevò la testa, si sedette, e si voltò verso di lui. Sbarrò gli occhi per la sorpresa, poi corse alla finestra, premendo le dita contro il vetro. Le sue labbra si mossero in silenzio. Carewe esultò: una volta che Athene fosse uscita dalla stanza, potevano attraversare il muro di recinzione e sbucare all’aperto in pochi secondi.
Tirò fuori il coltello e picchiò sul vetro col manico. Il rumore del colpo fu fortissimo, l’impatto gli fece tremare il polso, ma il vetro non si ruppe. Ritentò, e questa volta il coltello per poco non gli sfuggì dalle dita intorpidite. Athene si coprì la bocca con una mano che tremava, e i suoi occhi corsero alla porta della stanza. Sconcertato dalla resistenza del vetro, Carewe mise via il coltello e cercò automaticamente l’accetta; poi si ricordò che era caduta a terra. Fece un cenno vago ad Athene, corse all’orlo del tetto e sporse le gambe in fuori. I suoi piedi non riuscirono a trovare la grondaia, ma non c’era tempo per precauzioni eccessive. Si lanciò nel vuoto, cercando di non perdere l’equilibrio. Atterrò in piedi e si mise subito a cercare l’accetta. La grondaia che aveva scalato si trovava a meno di un metro da lui, ma dell’accetta non c’era traccia. Imprecando, allargò il raggio di ricerca.
— È qui, Willy. — La voce era fredda, divertita, come solo la voce di un immortale di duecento anni poteva essere.
Carewe si alzò in piedi, col fiato mozzo, e si costrinse a guardare.
La figura dignitosa, elegante, di Hy Barenboim sembrava fuori luogo sullo sfondo dello squallido muro di recinzione. I suoi occhi lo scrutavano con estrema attenzione. In mano aveva una torcia elettrica, e da come la stringeva non c’era dubbio che si trattasse di un’arma.
— Ciao — disse Carewe. — Avevo la sensazione che ti avrei incontrato.
— Una sensazione reciproca, ragazzo mio. — Barenboim agitò la torcia. — Entriamo.
— Aspetta un attimo. Saltando giù mi sono fatto male. — Carewe finse una smorfia di dolore, infilò la mano sotto la tunica. Le sue dita si strinsero sul manico del coltello.
— Dovresti avere tanto cervello da non buttarti in queste pagliacciate da eroe — disse Barenboim, annoiato. — Muoviti.
— Perché non mi uccidi qui? O è un posto troppo conosciuto? — Carewe tolse il coltello dalla cintura e lo strinse in mano.
— Il luogo esatto della tua scomparsa è un particolare di scarsa importanza — disse freddamente Barenboim. Accese la torcia e diresse il raggio luminoso sulla faccia di Carewe.
— I miei occhi — gemette Carewe. Scostò la testa di lato, e nello stesso tempo tirò fuori il coltello. Barenboim boccheggiò. Carewe, sfruttando quella che probabilmente era la sua unica possibilità, lanciò il coltello con tutta la forza di cui era capace. Il manico del coltello centrò Barenboim in piena gola. L’immortale andò a sbattere contro il muro, senza perdere la presa sulla torcia. Carewe gli fu addosso prima che l’altro potesse puntare il raggio laser. Afferrò il polso destro di Barenboim, gli fece cadere di mano la torcia, lo colpì al ventre gonfio col pugno: una volta, due, tre volte…