A questo punto poté scorgere, lucenti come bolle argentee nella luce riflessa della Terra, un gruppo di cupole a pressione: i rifugi temporanei che ospitavano gli uomini al lavoro sul posto. Accanto a essi si trovavano un’antenna radio, una torre di perforazione, un gruppo di veicoli parcheggiati, e un gran mucchio di roccia frantumata, presumibilmente il materiale che era stato scavato per mettere a nudo il monolito. Il minuscolo accampamento nella regione selvaggia sembrava molto solitario, molto vulnerabile dalle forze della natura assiepate silenziosamente intorno ad esso. Non si vedeva alcun segno di vita, e nulla di visibile lasciava capire perché alcuni uomini fossero venuti sin lì, così lontano dalla patria.
«Si può appena intravedere il cratere», disse Michaels. «Laggiù a destra… a un centinaio di metri circa da quell’antenna radio.»
Sicché ci siamo, pensò Floyd, mentre il laboratorio mobile passava accanto alle cupole a pressione, e si fermava sull’orlo del cratere. Il cuore gli batté in fretta mentre si sporgeva in avanti per vedere meglio. Il veicolo prese a strisciare con cautela giù per una rampa di roccia compatta nell’interno del cratere. E là, esattamente come lo aveva veduto nelle fotografie, si trovava il TMA-1.
Floyd lo fissò, batté le palpebre, scosse la testa, e tornò a fissarlo. Anche nella vivida luce della Terra non era facile vedere con chiarezza l’oggetto; la sua prima impressione fu quella di un rettangolo piatto che sarebbe potuto essere ritagliato in un foglio di carta carbone; sembrava che non avesse alcuno spessore. Naturalmente, questa era un’illusione ottica; sebbene stesse contemplando un corpo solido, esso rifletteva così poca luce che riusciva a scorgerlo soltanto di profilo.
I passeggeri serbarono il silenzio più assoluto, mentre il laboratorio mobile scendeva nel cratere. V’era timore reverenziale, e v’era anche incredulità… pura incapacità di credere che la morta Luna, tra tutti i mondi, potesse aver fruttato quella sorpresa fantastica.
Il laboratorio mobile si fermò a sei metri dal monolito e di fianco a esso, in modo che tutti i passeggeri potessero esaminarlo. Ciò nonostante, a parte la forma perfettamente geometrica dell’oggetto, v’era poco da vedere. In nessun punto si scorgevano segni qualsiasi, o una qualunque attenuazione di quell’estremo neroebano. Lo si sarebbe detto la cristallizzazione stessa della notte, e per un momento Floyd si domandò se non potesse trattarsi, in effetti, di qualche straordinaria formazione naturale, nata dalle fiamme e dalle pressioni accompagnatesi alla creazione della Luna. Ma questa possibilità, lo sapeva, era già stata esaminata e scartata.
A un segnale, i riflettori intorno all’orlo del cratere furono accesi, e la vivida luce della Terra venne cancellata da un bagliore di gran lunga più brillante. Nel vuoto lunare i fasci luminosi erano, naturalmente, del tutto invisibili; formarono ellissi sovrapposte di un bianco accecante, centrate sul monolito. E là dove lo toccavano, la sua superficie color ebano sembrava assorbirle.
Il vaso di Pandora, pensò Floyd, con un improvviso presentimento… in attesa di essere aperto dall’uomo indagatore. E che cosa vi troverà dentro?
13. LA LENTA ALBA
La principale cupola a pressione nella località del TMA-1 distava appena sei metri e il suo interno era scomodamente affollato. Il laboratorio mobile, accoppiato ad essa mediante una delle due camere d’equilibrio, consentì di avere una apprezzatissima aggiunta di spazio abitabile.
Nel pallone semisferico a doppia parete lavoravano e dormivano i sei scienziati e tecnici ora stabilmente adibiti allo studio del monolito. La cupola conteneva inoltre quasi tutto il loro equipaggiamento e quasi tutti gli strumenti, tutte le provviste che non potevano essere lasciate nel vuoto esterno, la cucina e gli impianti igienici, campioni geologici e un piccolo schermo televisivo mediante il quale lo scavo poteva essere tenuto sotto continua sorveglianza.
Floyd non si stupì quando Halvorsen decise di restare nella cupola; egli espose i suoi punti di vista con ammirevole franchezza.
«Considero le tute spaziali un male necessario», disse l’amministratore. «Ne indosso una quattro volte all’anno, per i controlli quadrimestrali. Se non le dispiace, rimarrò qui e vi osserverò attraverso lo schermo televisivo.»
In parte, questo suo pregiudizio era ormai ingiustificato, poiché gli ultimi modelli di tute spaziali erano infinitamente più comodi delle goffe corazze indossate dai primi esploratori lunari. Potevano essere infilati in meno di un minuto, anche senza nessun aiuto, ed erano completamente automatici. Il modello Mk V, nel quale Floyd venne ora accuratamente rinchiuso, lo avrebbe protetto dalle peggiori situazioni lunari, sia di giorno sia di notte.