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La bionda portò Bella in cima alle scale in un baleno. Carlisle ed Edward la seguirono. Nessuno si accorse che me ne stavo sulla soglia, esterrefatto.

E così, oltre a una banca del sangue, avevano pure un apparecchio per le radiografie? Mi sa che il dottore si portava il lavoro a casa.

Ero troppo stanco per seguirli, troppo stanco per muovermi. Mi appoggiai alla parete e scivolai sul pavimento. La porta era ancora aperta. Puntai il naso in quella direzione e resi grazie per l’aria pulita che entrava. Reclinai la testa contro lo stipite, in ascolto.

Sentivo il rumore dell’apparecchio per le radiografie al piano di sopra. O forse lo immaginai soltanto. Poi udii dei passi leggerissimi provenire dalle scale. Non mi voltai per vedere quale vampiro fosse.

«Vuoi un cuscino?», domandò Alice.

«No», bofonchiai. Perché volevano essere ospitali a tutti i costi? Mi mettevano a disagio.

«Non sembri comodo», osservò.

«Infatti».

«E allora perché non ti sposti?».

«Sono stanco. Perché non sei di sopra assieme agli altri?», rilanciai.

«Ho mal di testa», rispose.

Mi voltai a guardarla.

Alice era una cosetta minuscola. Delle dimensioni di un mio braccio, più o meno. Così incurvata sembrava ancora più piccola. Aveva il viso contratto.

«I vampiri hanno mal di testa?».

«Quelli normali no».

Sbuffai. Vampiri normali.

«Com’è che non stai più sempre appiccicata a Bella?», le chiesi. Più che una domanda, formulavo un’accusa. Non ci avevo ancora pensato perché avevo ben altro per la testa, ma trovavo strano che Alice non fosse mai con Bella, almeno da quando bazzicavo nei paraggi. Forse, se al suo fianco ci fosse stata Alice, non ci sarebbe stata Rosalie. «Pensavo foste così», intrecciai due dita.

«Come ti ho già detto», si rannicchiò per terra non lontano da me, prendendosi le ginocchia magrissime fra le braccia magrissime, «ho mal di testa».

«È Bella che te lo fa venire?».

«Sì».

Corrugai la fronte. Ero troppo stanco per gli indovinelli. Mi girai di nuovo verso l’aria fresca e chiusi gli occhi.

«Non è Bella, in verità», si corresse. «È... il feto».

Ah, qualcun altro che la pensava come me. Fu piuttosto semplice stanarla. Aveva pronunciato la parola a denti stretti, proprio come Edward.

«Non riesco a vederlo», si lasciò andare, come se stesse parlando fra sé. Per quanto ne sapeva, potevo già essere bello che andato. «Quando si tratta di lui non vedo niente. Proprio come quando si tratta di te».

Con un fremito, serrai i denti. Non mi piaceva essere paragonato alla creatura.

«Ci va di mezzo anche Bella. È talmente presa da lui che la vedo... annebbiata. Come in una TV sintonizzata male, quando ti sforzi di mettere a fuoco le persone che sfarfallano sullo schermo. Guardarla mi distrugge la testa. E per di più riesco a vedere solo con pochi minuti d’anticipo. Il... feto è una parte troppo importante del suo futuro. Quando ha deciso, quando ha capito di volerlo, si è offuscata. Mi sono spaventata a morte».

Tacque per un secondo e poi aggiunse: «Devo ammettere che è un sollievo averti vicino... anche se puzzi di cane. Non vedo niente. È come avere gli occhi chiusi. Tramortisce il mal di testa».

«Lieto di esserle utile, signora», mormorai.

«Mi domando cos’abbia in comune con te, perché siate uguali, in quel senso».

Un’improvvisa vampata di calore m’invase le ossa. Serrai i pugni per tenere a bada il tremito.

«Non ho niente in comune con quel succhiavita», dissi fra i denti.

«Qualcosa sì».

Non risposi. Il calore stava già evaporando. Ero troppo sfinito per mantenere la rabbia.

«Non ti scoccia se resto seduta accanto a te, vero?», chiese.

«Direi di no. Tanto c’è comunque puzza».

«Grazie», disse. «Credo sia il rimedio migliore, visto che non posso prendere l’aspirina».

«Puoi stare zitta? Stavo cercando di dormire».

Non rispose, di colpo calò il silenzio. Crollai nel giro di pochi secondi.

Sognai che morivo di sete. Di fronte a me c’era un bel bicchiere d’acqua fredda, la condensa colava ai lati. Afferravo il bicchiere e buttavo giù una gran sorsata, solo che immediatamente mi accorgevo che non era acqua, ma candeggina. Sputavo spruzzandola dappertutto, e un po’ mi usciva dal naso. Bruciava. Avevo il naso in fiamme.

Il dolore mi svegliò e ricordai dove mi ero appisolato. La puzza era piuttosto intensa, considerato che non ero dentro casa. E poi quel rumore. Qualcuno rideva troppo forte. Una risata familiare, ma che non s’intonava all’odore.

Con un gemito, aprii gli occhi. Vidi il cielo grigio cupo: era giorno, ma non avevo indizi per intuire che ora fosse. Forse il tramonto: era piuttosto buio.

«Finalmente», mormorò Rosalie, non lontana. «Cominciavo ad averne abbastanza della motosega».

Mi girai su un fianco e mi sedetti.

Nel frattempo, capii da dove veniva l’odore. Qualcuno mi aveva messo un cuscino di piume sotto la faccia. Probabilmente era un tentativo di dimostrare gentilezza. A meno che non fosse stata Rosalie.

Quando mi liberai dalle piume puzzolenti, colsi altri profumi. Pancetta e cannella, mescolati all’odore dei vampiri.

Battei le palpebre entrando nella stanza.

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