Fu Rosalie, rimasta talmente tranquilla e silenziosa che quasi mi ero dimenticato di lei, a fornirmela. La sua gola emise un suono beffardo. «Niente superstiti, ovviamente», disse.
Il bambino, il piccolo. Come se non importasse altro. Per lei, la vita di Bella era un dettaglio minimo, robetta che si poteva trascurare.
Il volto di Edward divenne bianco come la neve. Incurvò le mani a mo’ di artigli. Assolutamente egoista e indifferente, Rosalie si rannicchiò in poltrona voltandogli le spalle. Lui si chinò in avanti, acquattato e pronto a scattare.
Si fermò, inarcando un sopracciglio.
In silenzio, sollevai da terra la mia ciotola. Poi, con un rapido movimento del polso, la scagliai contro la nuca della bionda così forte che, con un rumore assordante, si accartocciò prima di rimbalzare per la stanza e far saltare il pomello della colonnina ai piedi della scala.
Bella si contorse, ma non si svegliò.
«Stupida bionda», brontolai.
Rosalie girò piano la testa, i suoi occhi fiammeggiavano.
«Mi. Hai. Gettato. Cibo. Nei. Capelli».
Eh già.
Scattai in piedi. Mi allontanai da Bella per non scuoterla e mi sbellicai tanto da lacrimare. Da dietro il divano arrivò la risata squillante di Alice.
Mi chiesi come mai Rosalie non reagisse. In un certo senso era ciò che mi aspettavo. Ma poi mi resi conto che la mia risata aveva svegliato Bella, che aveva continuato a dormire in mezzo al frastuono vero.
«Che c’è di tanto divertente?», farfugliò.
«Le ho gettato del cibo nei capelli», risposi e ricominciai a sghignazzare.
«Non me ne dimenticherò, cane», sibilò Rosalie.
«Non ci vuole tanto a cancellare la memoria di una bionda», ribattei. «Basta soffiarle in un orecchio».
«Aggiorna il repertorio», sbottò.
«Dai, Jake. Lascia in pace Ro...». Bella interruppe la frase a metà e si sforzò di prendere aria. Nel medesimo istante, Edward si era chinato per togliere di mezzo la coperta. Bella sembrava in preda alle convulsioni, la schiena arcuata.
«È lui. Si sta solo... distendendo», ansimò.
Aveva le labbra bianche e i denti serrati come se tentasse di trattenere un urlo.
Edward le prese il volto fra le mani.
«Carlisle?», chiamò con voce bassa, tesa.
«Sono qui», disse il dottore. Non lo avevo sentito entrare.
«Okay», fece Bella, il respiro ancora agitato. «Credo sia finita. Povero piccolo, non ha abbastanza spazio, tutto qui. Sta diventando così grande».
Quel tono adorante che usava per descrivere la cosa che la stava facendo a pezzi era intollerabile. Specie dopo il cinismo di Rosalie. Mi venne voglia di tirare qualcosa anche a Bella.
Non fece caso al mio umore. «Sai, Jacob, mi ricorda te», disse in tono affettuoso, mentre ancora boccheggiava.
«Non paragonarmi a quella cosa», sputai fra i denti.
«Mi riferivo al tuo sviluppo velocissimo», disse, e l’espressione che le si dipinse sul volto mi fece capire che avevo ferito i suoi sentimenti. Bene. «Sei cresciuto a vista d’occhio. Ti vedevo diventare più alto un minuto dopo l’altro. Anche lui è così. Cresce in fretta».
Per non dire ciò che avrei voluto, mi morsi la lingua tanto forte che sentii in bocca il sapore del sangue. Certo, si sarebbe rimarginata ancora prima che potessi deglutire. Ecco ciò di cui aveva bisogno Bella. Di essere forte come me, di guarire...
Respirò con meno fatica e si rilassò sul divano.
«Mmm», mormorò Carlisle. Alzai lo sguardo, mi puntava gli occhi addosso.
«Cosa?», chiesi.
Edward chinò la testa, riflettendo su ciò che aveva in mente Carlisle.
«Sai che ero curioso di conoscere la composizione genetica del feto, Jacob. Il numero delle coppie di cromosomi».
«Quindi?».
«Be’, tenendo in considerazione le vostre analogie...».
«Analogie?», ringhiai, non avendo apprezzato il plurale.
«La crescita rapida e il fatto che Alice non riesce a vedere nessuno dei due».
Sbiancai. Avevo dimenticato quel tratto in comune.
«Insomma, mi chiedo se non significhi che abbiamo trovato una risposta. Magari le analogie hanno radici genetiche».
«Ventiquattro coppie», biascicò Edward a mezza voce.
«Non puoi saperlo».
«No, ma fare congetture è interessante», disse Carlisle con voce vellutata.
«Sì, proprio