Читаем Il quinto giorno полностью

Buchanan, che aveva visto avvicinarsi la disgrazia, era sul ponte di comando e si mantenne a fatica in equilibrio aggrappandosi al tavolo delle carte. Altri non trovarono nulla cui afferrarsi e caddero a terra. Nelle sale di controllo al di sotto dell'isola, la nave vibrò talmente che i monitor si frantumarono e altre apparecchiature volarono in aria. Nel CIC, Samantha e Shankar furono strappati via dalle loro sedie. Nel giro di un secondo, sull'Independence scoppiò il caos più totale. Il suono penetrante dell'allarme, entrato immediatamente in funzione, si mischiò alle urla; si sentirono stridii e boati, mentre un rombo si espandeva Lungo i corridoi, le sale e i livelli.

Pochi secondi dopo l'impatto, la maggior parte dei mangiapetrolio, com'erano chiamati nel gergo della Marina i tecnici delle caldaie e della trasmissione, era morta. L'esplosione aveva aperto una falla gigantesca nei punto di confine tra lo spazio di carico e la sala macchine, dotata di due turbine a gas LM-2500. Lo scafo venne squarciato per una lunghezza di venti metri. L'acqua entrò con violenza inaudita, travolgendo quelli che non erano stati uccisi dall'esplosione del batiscafo. Chi era riuscito a sopravvivere e cercava di sfuggire a quell'inferno doveva fare i conti con le paratie, che si stavano chiudendo. L'unica strada per salvare l'Independence era impedire un'ulteriore espansione della falla, il che voleva dire sacrificare le persone che stavano nel ventre della nave, chiudendole insieme con la mugghiante massa d'acqua.


Elevatore esterno

La piattaforma subì un violento scossone. Balzò in alto come un'altalena e scagliò Floyd Anderson al di sopra di Johanson. Il primo ufficiale mulinava le braccia, allungando le dita, ma lì non c'era nulla cui aggrapparsi. Spiccò un salto che, in altre circostanze, sarebbe stato comico. Poi sbatté la fronte sulla piattaforma, si girò sulla schiena e rimase immobile, con gli occhi sbarrati.

Vanderbilt barcollò. La pistola gli cadde e scivolò via, fermandosi a pochi centimetri dal bordo. Vide Johanson che cercava di rialzarsi a fatica, corse verso di lui e lo colpì nelle costole. Lo scienziato si rovesciò su un fianco con un grido soffocato. Vanderbilt non aveva la minima idea di cosa fosse successo, ma si rendeva conto che doveva essere qualcosa di molto grave. Tuttavia l'incarico prevedeva di eliminare Johanson e lui era fermamente deciso a portarlo a termine. Si chinò per attaccare l'uomo, gemente e sanguinante, disteso sulla piattaforma e gettarlo oltre le reti di protezione, ma qualcuno gli saltò addosso, bloccandolo.

«Maledetto bastardo!» gridò Anawak.

Vanderbilt fu tempestato da una scarica di colpi e indietreggiò. Ebbe bisogno di qualche istante per riprendersi dallo sbigottimento. Sollevò le braccia per proteggersi la testa, scartò di lato e colpì l'aggressore con un calcio nella rotula.

Anawak vacillò, chinandosi in avanti. Allora Vanderbilt spostò il proprio baricentro. Era corpulento e sembrava goffo e impacciato, però non era affatto così. Il vice direttore della CIA aveva frequentato tutti i corsi possibili di attacco e autodifesa e, nonostante il suo quintale di peso, riusciva anche a fare qualche salto di notevole portata. Prese la rincorsa, si catapultò in aria e atterrò con gli stivali contro lo sterno di Anawak, che cadde sulla schiena. La sua bocca si aprì, ma non uscì nessun suono. Vanderbilt sapeva che gli mancava il fiato. Si chinò su di lui, lo afferrò per i capelli, lo sollevò e gli affondò il gomito nel plesso solare.

Per il momento poteva bastare. Doveva tornare da Johanson. Buttarlo in mare e spedirgli Anawak al seguito.

Quando si alzò, vide Greywolf venire verso di lui.

Vanderbilt si mise in posizione di attacco. Girò sul proprio asse con la gamba destra tesa, sferrò il calcio e rimbalzò.

Che storia è mai questa? pensò, sbigottito. Tutti gli altri erano finiti a terra o si stavano contorcendo dal dolore. Quel gigantesco mezzo indiano, invece, non aveva fatto neanche una piega. Nei suoi occhi c'era un'espressione inequivocabile. Di colpo, Vanderbilt comprese che doveva vincere quel duello, altrimenti non sarebbe sopravvissuto. Incrociò le braccia per assestare il colpo, lo sferrò e sentì che il suo pugno veniva tranquillamente deviato. Un attimo dopo, la mano sinistra di Greywolf affondò nel suo doppio mento. Vanderbilt cercò di colpirlo coi piedi, ma l'altro, con una mossa disinvolta, lo trascinò con sé verso il bordo. Poi lo sollevò e lo colpì.

Il campo visivo di Vanderbilt esplose.

Tutto divenne rosso. Sentì il setto nasale che si rompeva. Il colpo successivo gli frantumò lo zigomo sinistro. Dalla sua gola uscì un grido gorgogliante. Un nuovo pugno si conficcò in mezzo alla mascella. I denti saltarono via. Ormai Vanderbilt urlava a pieni polmoni, per il dolore e per la rabbia. Era fuori di sé. Si trovava nella morsa del gigante e non poteva fare nulla per evitare che il suo viso fosse ridotto in poltiglia.

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