«Mi dispiace. Posso tornare indietro e…»
«Non si preoccupi. Dovremo solo capire quale dei nostri clienti ha lo stomaco più piccolo.»
Il commerciante si scusò ancora. Si scusò nell'uscire e verosimilmente aveva continuato a scusarsi anche durante il viaggio di ritorno, mentre Jérôme era già nella splendida cucina del Troisgros e si occupava del menù serale. Aveva messo gli astici in una vasca con acqua fresca, dove se ne stavano immobili, apatici.
Passò un'ora e Jérôme decise di scottare gli animali. Aveva preparato un calderone d'acqua: era consigliabile lavorare in fretta gli astici vivi, dato che gli animali in cattività tendevano a deteriorarsi internamente. Scottarli non voleva dire cuocerli, bensì ucciderli con l'acqua bollente. Più tardi, poco prima di essere serviti, venivano cotti a fuoco lento. Jérôme attese finché l'acqua non raggiunse il bollore, prese gli astici dalla vasca e li infilò velocemente nell'acqua a testa in giù. L'aria usciva dai vuoti della corazza con uno stridio ben udibile. Li metteva l'uno dopo l'altro nel calderone e poi li tirava subito fuori. Il nono e il decimo morirono. La mano di Jérôme prese l'undicesimo — ah, è vero, era quello più leggero! — e lo mise nell'acqua bollente. Dieci secondi sarebbero bastati. Senza badarci troppo tirò fuori l'animale col grande mestolo…
E gli sfuggì un'imprecazione.
Che diavolo era successo? La corazza era letteralmente spezzata in due e una chela era rimasta nell'acqua. Inconcepibile. Jérôme sbuffò di rabbia. Appoggiò l'astice — o, meglio, quello che ne restava — sul tavolo da lavoro e lo girò sulla schiena. Anche la parte inferiore era frantumata e, nell'interno, dove doveva esserci la carne gustosa, c'era solo una patina gelatinosa e biancastra. Sbalordito, Jérôme guardò nel calderone. Nell'acqua ribollente galleggiavano pezzi e fili che solo con molta fantasia potevano essere scambiati per carne di astice.
Be', pazienza… In realtà aveva bisogno soltanto di dieci astici. Jérôme non limitava mai gli acquisti al minimo, ma era noto per il suo equilibrio. Nell'interesse dell'economia, si doveva essere sempre ben consapevoli delle quantità da cucinare, ma sempre con la precauzione di avere una piccola riserva di sicurezza. In quel momento, i suoi princìpi si rivelarono quanto mai utili.
La faccenda era comunque seccante.
Si chiese se l'animale fosse malato. Guardò la vasca: c'era ancora un astice, il secondo dei due più piccoli. Be', ormai non poteva fare altro che metterlo nella pentola.
Ah, no, là dentro nuotava ancora quella robaccia bianca.
Improvvisamente gli venne un'idea. L'animale malato era più leggero, quello ancora vivo lo era altrettanto… Significava qualcosa? Forse gli animali si consumavano da soli, oppure erano divorati da un virus o da un parassita. Jérôme esitò, poi prese il dodicesimo astice dalla bacinella e lo posò sul piano di lavoro per osservarlo.
Le lunghe antenne rivolte all'indietro si agitavano a scatti e le chele legate si muovevano debolmente. Non appena venivano tolti dal loro ambiente naturale, gli astici tendevano a una grande indolenza. Jérôme diede un colpetto all'animale e vi si chinò sopra. L'astice muoveva le zampe come se volesse scappare, ma restava fermo; dal punto in cui la coda segmentata entrava nella corazza colava qualcosa di trasparente. Che cos'era?
Jérôme si piegò sulle ginocchia. Era vicinissimo all'animale, all'altezza degli occhi, per così dire.
L'astice sollevò leggermente la parte superiore del corpo e, per un secondo, sembrò squadrare Jérôme coi suoi occhi neri. Poi esplose.
L'apprendista cui Jérôme aveva dato l'incarico di squamare il pesce si trovava a soli due metri di distanza, tuttavia uno scaffale sottile e senza copertura, che ospitava arnesi da cucina e spezie, gli impediva di vedere il fornello. Sentì l'urlo straziante di Jérôme e, spaventato a morte, lasciò cadere il coltello. Vide Jérôme barcollare via dal fornello con le mani premute sul viso e balzò verso di lui. Insieme urtarono rumorosamente contro il piano di lavoro di fronte. Le stoviglie sferragliarono e qualcosa cadde a terra, rompendosi rumorosamente.
«Cos'è successo?» gridava l'apprendista, nel panico. «Cos'è successo?»
Arrivarono anche gli altri cuochi. La cucina era una fabbrica nel senso migliore del termine: ciascuno aveva un proprio compito. Uno si occupava solo della selvaggina, un altro solo delle salse, un terzo della farcia, un altro ancora delle insalate, uno della pasticceria e così via. In un attimo, intorno al fornello regnò la più grande confusione. Poi Jérôme si tolse le mani dal volto e, tremando, indicò il tavolo da lavoro. Sui suoi capelli c'era una sostanza appiccicosa e trasparente, che gli colava anche sul viso e sul collo.
«È… esploso», ansimò.