“Vuoi rendermi la casa! Oh! rendimela via, e con essa[11] la mia cameretta linda, pelita, col soffitto tinto d’azzurro, e il letticciolo con le coperte di rascia rossa e il bel capoletto di Sicilia: rendimi la immagine della Madonna dell’Impruneta di Luca della Robbia e la lampada e il vaso dove ogni giorno mutava fiori freschi di mia mano colti nel giardino… Ma come farai a rendermela, se quando ne uscii, il pavimento, le pareti, il soffitto tutta andava in fiamme?… Mi vuoi gettare tra il fuoco? In che peccai? Questa `e la stanza dei dannati, ed io non ho fatto male a nessuno nel mondo. Io sono innocente, io! Tu mi hai parlato di madre: portami a vederla, e ti dir`o fratello, perocch'e io sappia ogni creatura nascere da una madre ed essere amata da lei sopra ogni cosa: ma io, sai? Non ho conosciuta la mia… nessuno ha risposto allorch'e domandai: siete mia madre voi? ed io fin qui ho dubitato di essere venuta al mondo senza. Ben ho padre e amatissimo. Almeno lo avevo un’ora fa; ora poi non so pi`u se io lo abbia. Adesso poi che madonna Lucrezia `e morta. Oh! le sventure vengono sempre e troppo accompagnate. Questa magnanima donna, di cui vi narrer`o il pietosissimo caso, che aveva di qualche anno condotto a marito Iacopo Palmieri da Firenze, abitava in villa poco lontana dalla casa che fu nostra nel popolo di Dudda: lei era un esempio di domestica virt`u; per santit`a di costumi venerata, dai poverelli per la sua beneficenza benedetta, a ragione della donnesca sua leggiadria a quanti la conoscevano gradita, discreta, ben parlante, amorevole. A lei dunque mi voltai interrogandola dove fosse mio padre: e lei mi ha detto di stare in luogo sicuro; non dubitassi; lo avrei rivisto un giorno, sotto cielo meno inclemente, circondato da creature pi`u buone. Queste parole non mi confortavano per niente; ricordai lo scoppio dell’archibugio, il padre scomparso, e stemperandomi in pianto, pi`u e pi`u sempre invocava il mio povero padre. Le compagne, non sapendo come consolarmi, dolenti anche loro per uguali sventure, piansero al mio pianto, ai miei gridi gridarono. Sola madonna Lucrezia, trattenute le lacrime, non facendo atto che apparisse vile, con soavi parole ci conforta, in mille modi diversi s’ingegna raumiliarci: “Il pianto, ci dice, pu`o solamente aggravare i colpi di fortuna; abbiamo coraggio per i casi con i quali il Signore intender`a provarci; ricordiamoci le donne che con rischio della vita avevano pigliato in mano la difesa della patria e che non dovevano piangere; a nemico superbo opponiamo tutte le nostre forze; un giorno anche loro scontrerebbero amare queste esultanze nefande; a Dio volgiamo il cuore rassegnato e contrito; alla Madre Santissima ci raccomandiamo; viviamo le nostre vite con onore; se no, scegliaimo la morte, e il cielo si aprire a raccogliere la nostra anima cantando le glorie dei martiri.” Cos`i accesa nel volto con occhi lucenti favellava la santissima donna, quando, schiusa la porta, apparve tra noi l’abborrito ordinatore della morte di mio padre. Le compagne si strinsero attorno a me, come colombe paurose del nibbio; io lo guardavo fisso e sentivo ribollirmi nel cuore orribile sete di sangue, sicch`i se avessi in mano daga o archibugio e avessi saputo come si uccide un uomo, lo avrei trucidato di certo. Quel uomo, che seppi tenere grado di capitano, e chiamarsi Giovambattista da Recanati, si restrinse a colloquio con Madonna; procedevano da prima le sue parole dimesse, la persona piegava in atto di ossequio, poi divent`o a mano a mano, concitato nel dire, gli occhi gli avvamparono ardenti. Madonna rispondeva raro, come schermendosi da molesta domanda, e noi la vedevamo a volte impallidire, a volte arrossire a guisa di persona posta al tormento. All’improvviso quel triste proruppe: “Fin qui pregai. Ora sappiate che io posso volere e voglio…” Lucrezia lo supplicava tacesse, il luogo considerasse e le persone; ma l’altro non udiva ed ambe le braccia distese per afferrarla. In quello estremo la donna gli strappa la daga dal fianco e, alquanto indietreggiando, gliel’appunta alla gola gridando: “Scostati, o sei morto.” Declinando il giorno, comparve il capitano Recanati in compagnia di alquanti suoi scherani, e con loro noi tutti uscimmo. Lucrezia volse i passi frettolosi alle sponde dell’Arno. Talora si ferma, guardando il cielo e la terra: e poich`i il cielo appariva divinamente sereno e la terra lieta di verdi piante… Volgendosi a noi ci disse: “L’ultima ora di un giorno e di una vita `e compiuta; pregate per un’anima che sta per passare.” Il senso di quelle parole non ci era chiaro, pure pregammo con ardentissimi voti. Cosa stupenda e a me medesima, dove non l’avessi con i propri miei occhi contemplata, incredibile. I masnadieri e il capitano, i quali ci vigilavano da vicino, commossi dallo spettacolo di amore e di fede, loro malgrado si prostrarono anche loro, sforzandosi richiamare sulle labbra l’orazione nei primi anni della vita imparata dalla pia genitrice. Noi donne stavamo sopra il ciglione dell’argine; menava sotto vertiginose le acque l’Arno grosso per le pioggie cadute nei giorni precedenti. Madonna Lucrezia si leva: aveva nel volto gran parte di cielo; il crepuscolo dorato lo vestiva di luce serafica: ci guard`o mesta, non abbattuta; secura non baldanzosa; e aprendo la bocca favell`o: Figliuole mie, che voi sceglieste piuttosto la morte con onore che la vita con vergogna, stamani con parole io v’insegnavo; guardate, adesso ve lo confermo con l’esempio. Ah! il pianto mi toglie possibilit`a di raccontarvi partitamente come ella, spiccato un salto, si precipitasse nel fiume: come vedessimo ora apparire sulle acque, ora scomparire sotto, la santissima donna; e tanta era in lei la voglia di preporre l’onest`a alla vita che quante volte l’impeto dei vortici la respinse su a galla, altrettante ella mettendosi le mani sul capo si attuffava gi`u nel fondo. Una voce lontana penetr`o nel corpo di guardia, che chiamava: