«Capita spesso che le case della mia gente in esilio siano così, sai? Chi viene dalla Terra della Notte non ama la luce. Nella mia famiglia le finestre sono sempre state tenute chiuse. A parte di notte, naturalmente. Mio padre sostiene che è un modo per ricordarsi delle proprie radici.»
Nihal si fece guidare come una cieca, finché gli occhi non si abituarono alle tenebre e poterono distinguere il profilo delle cose.
Attraversarono lunghi corridoi, che collegavano stanze spaziose, tutte arredate con il minimo indispensabile. Un tavolo al centro, una cassapanca contro una parete e poco altro. Quasi in ogni stanza c’erano camini così ampi che Nihal sarebbe potuta entrarci. Le pareti erano fitte di spade, lance e armi di ogni genere.
Regnava un silenzio perfetto, rotto solo dall’eco dei loro passi sul pavimento di pietra. C’era odore di chiuso. Sembrava di essere scesi nelle viscere della terra. Nihal iniziò a sentirsi oppressa da quel luogo.
Finalmente giunsero davanti a una porta massiccia e il servitore si fece da parte. Laio prese un profondo respiro, quindi aprì il doppio battente.
Il salone in cui entrarono era molto più grande dei precedenti e meglio illuminato. Al centro c’era un lunghissimo tavolo, a un capo del quale era seduto Pewar.
Assomigliava molto al figlio: capelli biondi e ricci e occhi grigio chiaro, ma al suo volto mancava la vivacità di Laio. Aveva i lineamenti duri e lo sguardo severo di chi impone a sé e agli altri una rigida disciplina. Benché si trovasse a casa propria, vestiva con l’uniforme che adottavano i generali durante i consigli di guerra. Al fianco aveva la spada.
Non si alzò neppure. Fu Laio a farsi avanti, per poi salutarlo con un inchino rispettoso. Pewar rispose ponendogli rigidamente una mano sulla spalla. «Ti aspettavo giorni fa.»
«Io e la mia compagna abbiamo avuto problemi durante il viaggio.» La voce di Laio tremava.
L’uomo volse gli occhi verso Nihal e la squadrò da capo a piedi. Il mezzelfo chinò il capo.
«È lei la causa della tua permanenza in quell’accampamento?» chiese.
«È lei che mi ha salvato dai nemici nei quali mi ero imbattuto. Ero ferito, quindi mi ha portato alla base. È anche merito suo se ora sono qui. Mi ha salvato da una banda di briganti» disse Laio tutto d’un fiato.
Pewar scrutò Nihal a lungo e lei sostenne il suo sguardo. «Avrò modo di discutere con te in seguito. Ora lasciami solo con mio figlio. Un servitore ti condurrà alla stanza che ti è stata riservata.»
Il servo comparve silenzioso alle spalle di Nihal e lei non poté fare altro che seguirlo.
Nihal restò nel buio umido della sua stanza per un tempo che non seppe calcolare. L’oscurità la soffocava e si costrinse a fissare la fiamma guizzante dell’unica candela che rischiarava l’ambiente.
Finalmente sentì bussare alla porta e Laio entrò con aria mesta. Aveva gli occhi lucidi.
Nihal non ci mise molto a capire. «Non è andata bene, vero?»
Laio si limitò a scuotere il capo.
«Sapevi che non sarebbe stato facile.»
«Non sembrava neppure contento di vedermi sano e salvo» mormorò il ragazzo, mentre si torceva le mani. «Per quanto lo riguarda, potevo anche essere morto. Almeno non avrei infangato il buon nome del casato.»
«Non dire sciocchezze, Laio. Certo che era contento di vederti...» provò a consolarlo Nihal.
«Sai che cosa ha detto?» la interruppe lui. «Che solo i figli di nessuno fanno gli scudieri. Che è un lavoro indegno e che io appartengo a una famiglia di grandi guerrieri e non posso essere da meno dei miei antenati.» Nihal vide lacrime di rabbia inumidirgli gli occhi. «Comunque non mi interessa. Non ho passato tutto quello che ho passato per tirarmi indietro proprio ora. Stavolta non mi farò piegare. Stavolta farò di testa mia.»
Per quel giorno Pewar non si degnò di convocare Nihal. A quanto sembrava, i vertici dell’Accademia avevano tutti lo stesso modo di fare. Anche Raven si divertiva a lasciare attendere oltre i limiti del ragionevole coloro che si recavano da lui per un’udienza.
Fino all’ora di cena la casa fu silenziosa come un cimitero, poi un campanello annunciò che il pasto stava per essere servito. Mangiarono nella stessa sala dove Laio e suo padre avevano discusso: una zuppa frugale, pane nero e acqua.
Pewar evitò gli sguardi dei suoi ospiti per quasi tutto il tempo. Il rumore più vivace era il cozzare dei cucchiai nelle scodelle.
Solo verso la fine della cena il generale ritenne di poter rivolgere la parola a Nihal. «Laio mi ha raccontato dell’imboscata. Ti sono grato per il servigio che mi hai reso salvando mio figlio» disse serio.
«Laio è un amico. Non c’è bisogno che mi ringraziate» rispose Nihal compita.
«La riconoscenza e l’esaltazione del coraggio sono due capisaldi dell’esercito» ribatté Pewar rigido. «Come ricompensa, desidero che tu scelga una qualunque delle armi nella sala grande. Dopo ti ci condurrò io stesso.»