Intravide un sorriso un po’’ imbarazzato, ma incantevole.
Si appoggiò alla spalliera del sedile e si rilassò. Quel viaggio, calcolò, sarebbe costato ai contribuenti un po’’ più di un milione di dollari. Se fosse risultato ingiustificato, egli avrebbe perduto il posto; ma gli sarebbe sempre stato possibile tornare all’università e agli studi interrotti sulla formazione dei pianeti.
«Via al sistema automatico di conteggio alla rovescia», disse la voce di Tynes dall’altoparlante, con la cullante cantilena tipica delle conversazioni per radio. «Decollo tra un minuto.»
Come sempre, il decollo parve più lungo di un’ora. Floyd divenne acutamente consapevole delle forze gigantesche avvolte a spirale intorno a lui e in attesa di essere sprigionate. Nei serbatoi di carburante della nave spaziale e nel serbatoio di energia della rampa di lancio era compressa la stessa potenza di una bomba nucleare. Ed essa sarebbe stata impiegata per condurlo ad appena trecentosessanta chilometri dalla Terra.
Non vi fu più nulla dell’antiquato sistema di conteggio alla rovescia, CINQUEQUATTROTREDUEUNOZERO, così nocivo al sistema nervoso umano.
«Lancio tra quindici secondi. Si sentirà più a suo agio se comincerà a respirare profondamente.»
Questa era utile psicologia e utile fisiologia. Floyd si sentì ben saturato di ossigeno, e pronto ad affrontare qualunque cosa quando la rampa di lancio incominciò a scaraventare sull’Atlantico il suo carico.
Non fu facile capire quando si sollevarono dalla rampa e iniziarono il volo, ma non appena il rombo dei razzi raddoppiò a un tratto la propria furia, e Floyd si sorprese ad affondare sempre e sempre più nei cuscini del sedile, capì che i motori del primo stadio erano stati messi in moto. Si augurò di poter guardare fuori dal finestrino, ma era uno sforzo anche soltanto voltare la testa. Eppure non si provava alcun disagio; anzi, la pressione dell’accelerazione e del rombo travolgente dei motori produceva una straordinaria euforia. Con le orecchie ronzanti e il sangue pulsante nelle vene, Floyd si sentì più vivo di quanto gli fosse accaduto da anni. Era di nuovo giovane, avrebbe voluto cantare a gran voce… il che era senz’altro possibile, in quanto nessuno sarebbe riuscito a udirlo.
Lo stato d’animo passò rapidamente, mentre egli si rendeva conto che stava abbandonando la Terra e tutto ciò che avesse mai amato. Laggiù si trovavano i suoi tre figli, rimasti orfani della madre da quando sua moglie era partita con quel fatale volo per l’Europa dieci anni prima. (Dieci anni? Impossibile! Eppure era così…) Forse, nel loro interesse, avrebbe dovuto riammogliarsi…
Aveva quasi perduto la sensazione del tempo quando la pressione e il rombo diminuirono bruscamente, e l’altoparlante della cabina annunciò: «Ci prepariamo al distacco del primo stadio. Via.»
Vi fu un lieve sussulto; e a un tratto Floyd ricordò una citazione di Leonardo da Vinci, che aveva visto incorniciata in un ufficio della NASA:
II Grande Uccello volerà sul dorso del grande uccello, arrecando gloria al nido ove nacque.
Bene, il Grande Uccello stava volando adesso, di là da tutti i sogni di Leonardo da Vinci, e il suo esausto compagno tornava sulla Terra. Dopo un arco di sedicimila chilometri, il primo stadio vuoto avrebbe planato nell’atmosfera, rinunciando alla velocità per la distanza, mentre si dirigeva verso il cosmodromo Kennedy. Di lì a poche ore, revisionato e rifornito di carburante, sarebbe stato nuovamente pronto a sollevare un altro compagno verso il silenzio splendente che non avrebbe mai potuto raggiungere.
Ora, pensò Floyd, siamo autonomi, più che a metà strada dall’orbita. Quando l’accelerazione tornò a farsi sentire, mentre entravano in azione i razzi del secondo stadio, la spinta fu assai più dolce: invero, egli non senti più della gravità normale. Ma sarebbe stato impossibile camminare, dato che «l’alto» si trovava direttamente verso la parte anteriore della cabina. Se egli fosse stato così sciocco da lasciare il suo posto, sarebbe andato a schiacciarsi immediatamente contro la parete posteriore.
Questo effetto era un po’’ sconcertante, in quanto si sarebbe detto che la nave spaziale fosse ritta sulla propria coda. A Floyd, seduto nell’estremità anteriore della cabina, tutti i sedili apparivano fissati a una parete che scendeva a perpendicolo sotto di lui. Stava facendo del suo meglio per ignorare questa spiacevole illusione, quando l’alba esplose fuori dalla nave spaziale.
In pochi secondi saettarono attraverso veli cremisi e rosei e dorati e azzurri fino al bianco accecante del giorno. Sebbene i finestrini fossero intensamente anneriti per attenuare il bagliore, i sondanti fasci di luce solare che adesso si inclinavano adagio nella cabina lasciarono Floyd quasi cieco per parecchi minuti. Si trovava nello spazio, eppure era impossibile riuscire a scorgere le stelle.