I quattro dadi vennero via senza alcuna difficoltà e Poole li mise con cautela in una comoda tasca. (Un giorno, aveva predetto qualcuno, la Terra avrebbe avuto un anello come Saturno, composto esclusivamente di dadi, coppiglie e persino attrezzi sfuggiti a sbadati operai di costruzioni orbitali.) Il coperchio di metallo stentava un po’’ a staccarsi, e per un momento temette che potesse essere stato bloccato dal gelo; ma dopo alcuni colpetti venne via e Poole lo assicurò al sostegno dell’antenna mediante un grosso supporto a graffa.
Ora poteva vedere i circuiti elettronici dell’elemento AE-35. Aveva la forma di una piastra sottile, grande press’a poco come una cartolina postale, contenuta da una scanalatura abbastanza ampia per tenerla ferma. L’elemento era tenuto in sito da due sbarrette di chiusura e aveva una piccola maniglia per poter essere estratto più facilmente.
Ma stava ancora funzionando e forniva all’antenna gli impulsi che la tenevano orientata verso il remoto puntino luminoso della Terra. Se fosse stato estratto adesso, il controllo si sarebbe completamente interrotto, e il riflettore parabolico avrebbe assunto la posizione neutra, o di azimutzero, orientandosi lungo l’asse della Discovery; e questo sarebbe stato pericoloso; ruotando, il riflettore avrebbe potuto urtarlo.
Per evitare questo particolare pericolo, bastava togliere l’energia dal sistema di controllo; allora l’antenna non avrebbe potuto muoversi, a meno che lui stesso non l’avesse urtata. Non v’era alcun pericolo di perdere la Terra durante i pochi minuti occorrenti per sostituire l’elemento; il loro bersaglio non si sarebbe spostato in misura apprezzabile contro lo sfondo di stelle in un così breve intervallo di tempo.
«Hal», disse Poole al circuito radio, «sto per estrarre l’elemento. Togli l’energia dal sistema dell’antenna.»
«Energia tolta», rispose Hal.
«Ecco che se ne va. Estraggo l’elemento adesso.»
La piastra scivolò fuori dalla scanalatura senza alcuna difficoltà; non si bloccò e nessuno delle decine di contatti a pressione rimase inceppato. Un minuto dopo, l’elemento di ricambio era al suo posto.
Ma Poole non intendeva esporsi a rischi. Si scostò dolcemente dal sostegno dell’antenna, nell’eventualità che il grosso riflettore potesse impazzire nel momento in cui gli fosse stata ridata l’energia. Quando fu al sicuro e fuori di portata, disse ad Hal: «Il nuovo elemento dovrebbe essere operativo. Ridai energia.»
«Energia ridata», rispose Hal. L’antenna rimase assolutamente ferma.
«Adesso esegui le prove di previsione di guasto.»
Ora, impulsi microscopici avrebbero percorso i circuiti complicati dell’elemento, sondando possibili guasti, collaudando la miriade di componenti per accertare che fossero tutti nei limiti delle tolleranze previste. Ciò era già stato fatto, naturalmente, una ventina di volte prima ancora che l’elemento uscisse dalla fabbrica; ma tali collaudi avevano avuto luogo due anni prima e a più di ottocento bilioni di chilometri di distanza. Spesso non si riusciva a capire come componenti elettronici allo stato solido potessero guastarsi; eppure accadeva.
«Circuito completamente operativo», riferì Hal, dopo appena dieci secondi. In questo brevissimo intervallo di tempo aveva eseguito tanti collaudi quanto un piccolo esercito di ispettori umani.
«Bene», disse Poole, soddisfatto. «Ora rimetto a posto il pannello.»
Questa era spesso la parte più pericolosa di una riparazione extraveicolare: gli errori venivano commessi quando un lavoro era stato terminato e si trattava semplicemente di rimettere ogni cosa a posto e di rientrare nella nave spaziale. Ma Poole non avrebbe partecipato a quella missione se non fosse stato guardingo e coscienzioso. Si concesse tutto il tempo necessario, e anche se uno dei controdadi per poco non gli sfuggì, lo afferrò prima che avesse percorso più di qualche decimetro.
Un quarto d’ora dopo, azionando il getto, rientrava nella rimessa delle capsule, tranquillamente certo di avere sbrigato un lavoro che non doveva essere rifatto. In questo, però, s’ingannava.
23. DIAGNOSI
«Vuoi dire», esclamò Frank Poole, non tanto irritato quanto stupito, «che ho fatto tutto quel lavoro per niente?»
«Così sembra», rispose Bowman. «L’elemento funziona perfettamente. Anche con un sovraccarico del duecento per cento, non risulta alcuna previsione di guasto.»
I due uomini erano in piedi nella minuscola officinalaboratorio del tamburo ruotante, più comoda della rimessa delle capsule per le piccole riparazioni e i controlli. Lì non si correva alcun pericolo di essere ustionati da gocce di stagno fuso galleggianti in assenza di gravità, o di perdere completamente piccoli attrezzi che avessero deciso di andare in orbita. Queste cose potevano invece accadere e accadevano, nell’ambiente Zerog della rimessa delle capsule.