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E poi, come il lampo di luce di un flash, la scena cambiò. O meglio, tutto era uguale — i Volturi ci venivano incontro, pronti a uccidere — ma il mio atteggiamento era diverso. D’un tratto ero impaziente. Volevo che attaccassero. Il panico si trasformò in sete di sangue, mentre mi rannicchiavo in avanti, il sorriso sulle labbra e un ruggito fra i denti scoperti.

19

Bruciare

Il dolore era sconvolgente.

Proprio così. Ero sconvolta. Non capivo, non trovavo un senso a ciò che stava accadendo.

Quando il mio corpo cercava di rimuovere il dolore, venivo ripetutamente risucchiata da tenebre che avvolgevano secondi interi, persino minuti di quell’agonia, e rendevano ancora più difficile mantenere il senso della realtà.

Provai a separarle.

La non realtà era nera e non faceva così male.

La realtà era rossa e mi sentivo come fossi stata segata in due, investita da un autobus, messa KO da un peso massimo, calpestata dai tori e immersa nell’acido, tutto contemporaneamente.

La realtà era percepire il mio corpo contorcersi e divincolarsi mentre non potevo neanche muovermi per via del dolore.

La realtà era sapere che c’era qualcosa di molto più importante di tutta quella tortura e non riuscire a ricordare cosa.

La realtà era sopraggiunta troppo in fretta.

Un istante prima, tutto era come avrebbe dovuto essere. Ero circondata da persone che amavo. Sorrisi. In qualche modo, per improbabile che fosse, sembrava che stessi per ottenere tutto ciò per cui avevo lottato.

Poi una cosa piccola, irrilevante, era andata storta.

Avevo visto il bicchiere capovolgersi, il sangue scuro rovesciarsi e macchiare il bianco immacolato, e con un gesto automatico mi ero chinata a raccoglierlo. Avevo visto le altre mani, rapidissime, eppure il mio corpo continuava ad allungarsi, a tendersi...

Dentro di me, qualcosa aveva strattonato nella direzione opposta.

Lacerandomi. Spezzandomi. Torturandomi.

L’oscurità aveva preso il sopravvento, poi si era trasformata in un’onda di tortura. Non riuscivo a respirare... Già una volta avevo rischiato di annegare, ma era stato diverso: sentivo troppo caldo nella gola.

Parti di me si frantumavano, si spaccavano, si sbriciolavano ...

Altre tenebre.

Poi urla e il dolore che tornava.

«La placenta deve essersi staccata!».

Qualcosa più affilato di un coltello mi trapassò: le parole, sensate a dispetto di quella tortura. Placenta staccata: sapevo cosa significava. Il mio bambino stava morendo dentro di me.

«Fatelo uscire!», urlai a Edward. Perché non l’avevano ancora fatto? «NON RESPIRA! Fatelo uscire SUBITO!».

«La morfina...».

Voleva aspettare e anestetizzarmi mentre nostro figlio stava morendo?!

«NO, ADESSO...!», dissi con un rantolo, incapace di finire.

La luce nella stanza si macchiò di nero mentre da una sorgente fredda un altro dolore infieriva con una gelida pugnalata nella pancia. Qualcosa non andava; lottavo automaticamente per proteggere il mio grembo, il mio bambino, il mio piccolo Edward Jacob, ma ero debole. I polmoni mi facevano male, mi mancava l’ossigeno.

Il dolore scomparve di nuovo, nonostante mi ci stessi aggrappando. Il mio bambino, il mio bambino sta morendo...

Quanto tempo era passato? Secondi, minuti? Il dolore se n’era andato lasciandomi intorpidita, con i sensi azzerati. Ma riuscivo ancora a sentire. E c’era di nuovo aria nei miei polmoni, bolle di dolore che raschiavano su e giù per la gola.

«Resta con me, Bella! Mi senti? Resta qui! Non voglio che mi lasci. Fai battere il tuo cuore!».

Jacob? Jacob, sempre lui, sempre deciso a salvarmi.

, volevo dirgli. Sì che volevo far battere ancora il mio cuore. Non l’avevo promesso a entrambi?

Provai a sentire il cuore, per trovarlo, ma ero persa nel mio stesso corpo. Non sentivo ciò che dovevo, niente era al posto giusto. Battei gli occhi e li trovai. Vidi un po’ di luce. Non era ciò che stavo cercando, ma meglio di niente.

Mentre i miei occhi cercavano di adattarsi, Edward sussurrò: «Renesmee».

Renesmee?

Non era il bambino chiaro e perfetto della mia fantasia? Un attimo di smarrimento. E poi, un fiotto di calore.

Renesmee.

Costrinsi le labbra a muoversi, le bolle d’aria a trasformarsi in sussurri sulla mia lingua. Costrinsi le mani addormentate a tendersi. «Fammi... Dammela».

La luce ondeggiò accecante dalle mani cristalline di Edward. Lo scintillio aveva la sfumatura rossa del sangue che gli macchiava la pelle. E c’era ancora più rosso nelle sue mani. Qualcosa di piccolo si divincolava, grondante di sangue. Edward avvicinò il corpicino caldo alle mie braccia deboli e per me fu quasi un abbraccio. La sua pelle bagnata era calda. Calda come quella di Jacob.

La mia vista si affilò. All’improvviso, tutto fu assolutamente chiaro.

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