Il calore accanto al mio cuore si fece sempre più reale, sempre più forte. Rovente. Così reale che era difficile credere che fosse tutta immaginazione.
Ancora più caldo.
E sempre meno piacevole. Troppo caldo. Troppo, troppo caldo.
Come se avessi afferrato un arricciacapelli dalla parte sbagliata, la mia reazione automatica fu di lanciare via ciò che mi ardeva fra le braccia. Ma fra le mie braccia non c’era niente. Le mie braccia non erano piegate sul petto. Le mie braccia erano oggetti morti che giacevano da qualche parte accanto a me. Il calore veniva da dentro.
Il fuoco crebbe, aumentò, raggiunse un apice e crebbe ancora, fino a superare qualsiasi altra sensazione avessi mai provato.
Nel mio petto, dietro le fiamme, sentii pulsare qualcosa e capii di aver ritrovato il mio cuore, appena in tempo per desiderare di non averlo mai fatto, di restare avvinta all’oscurità finché ne avevo ancora la possibilità. Avrei voluto alzare le braccia e squarciarmi il petto per strapparmi via il cuore. Qualunque cosa pur di sfuggire a quella tortura. Ma non sentivo le braccia, non riuscivo a muovere neanche un dito fantasma.
James che mi spezzava la gamba con il piede: quello era niente. Era un letto di piume, al confronto. Avrei fatto cambio, cento volte. Cento gambe spezzate. Le avrei accettate e avrei pure detto grazie.
La bambina che mi spezzava le costole a calci, che si faceva spazio sbriciolandomi, non era niente. Era galleggiare in una piscina d’acqua fresca. L’avrei preferito mille volte. L’avrei accettato ringraziandola.
Il fuoco avvampò con maggiore intensità e desiderai urlare, pregare qualcuno di uccidermi subito, di non impormi neanche un secondo in più di quel dolore. Ma non riuscivo a muovere le labbra. Il peso era ancora lì, a schiacciarmi.
Mi resi conto che non era l’oscurità a spingermi in basso, ma il mio stesso corpo. Pesante. Mi seppelliva fra le fiamme che nascevano dal cuore e lo rimasticavano per farsi strada e dispiegarsi con un dolore insopportabile attraverso le spalle e lo stomaco, ustionandomi la gola, fino a lambire il viso.
Perché non riuscivo a muovermi? Perché non riuscivo a urlare? Non era questo ciò che mi avevano raccontato.
La mia mente, insostenibilmente sveglia e lucida per via del dolore violento, colse la risposta appena formulai la domanda.
La morfina.
Ne avevamo discusso circa un milione di morti prima, io, Edward e Carlisle. Loro speravano che la giusta dose di sedativo bastasse a controllare il dolore del veleno. Carlisle ci aveva già provato con Emmett, ma il veleno aveva iniziato la sua opera prima del farmaco e gli aveva sigillato le vene. L’analgesico non aveva avuto tempo di diffondersi nel corpo.
Sforzandomi di mantenere un’espressione tranquilla, avevo annuito e ringraziato la mia piccola buona stella per il fatto che Edward non potesse leggermi nel pensiero.
Perché mi era già successo di assumere morfina e veleno insieme, e sapevo la verità. Sapevo che l’insensibilità causata dal farmaco era completamente irrilevante fintanto che il veleno mi scorreva nelle vene. Ma non mi ero mai azzardata a parlarne. Non volevo rafforzare la sua ritrosia a trasformarmi.
Non avevo immaginato che la morfina avrebbe avuto quell’effetto, che mi avrebbe immobilizzata e imbavagliata. Paralizzata, mentre bruciavo.
Conoscevo tutte le storie. Sapevo che Carlisle era rimasto abbastanza silenzioso da evitare che lo scoprissero mentre bruciava. Sapevo che, secondo Rosalie, urlare non era utile. E avevo sperato di comportarmi come Carlisle. Dovevo credere a Rosalie e tenere la bocca chiusa, perché sapevo che ogni urlo che mi fosse sfuggito dalle labbra sarebbe stato un tormento per Edward.
Ora che il mio desiderio si stava avverando, sembrava uno scherzo spaventoso.
Se non potevo urlare,
Non desideravo altro che morire. Non essere mai nata. La mia intera esistenza svaniva di fronte a quel dolore. Non valeva la pena di sopravvivere a un altro battito del cuore.
Fatemi morire, fatemi morire, fatemi morire.
E, per un intervallo infinito, non ci fu nient’altro. Solo la tortura incandescente e le mie grida mute che imploravano l’arrivo della morte. Nient’altro, neanche il tempo. Al suo posto l’infinito, senza inizio e senza fine. Un infinito momento di dolore.
L’unico cambiamento giunse quando all’improvviso, incredibilmente, il dolore raddoppiò. La parte bassa del mio corpo, insensibile già prima della morfina, di colpo s’incendiò. Qualche giuntura rotta si era saldata grazie alle lingue di fuoco.
L’incendio infuriava, interminabile.
Passarono secondi o giorni, forse settimane o anni, ma a un certo punto il tempo tornò ad avere senso.
Successero tre cose insieme, sovrapposte, tanto che non capii quale fosse la prima. Il tempo ricominciò a scorrere, l’effetto della morfina scomparve e riguadagnai le forze.