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Il mio cuore prese il volo e batteva come le pale di un elicottero, quasi con la stessa vibrazione di una nota lunga; sembrava pronto a sbriciolarmi le costole. L’incendio divampò al centro del mio petto e succhiò gli ultimi residui delle fiamme dal resto del corpo, prima di innescare il rogo definitivo. Il dolore intenso riuscì a tramortirmi, a sciogliere la presa ferrea con cui mi controllavo. La mia schiena s’inarcò come sollevata dal fuoco che mi trascinava afferrandomi al cuore.

Non permisi a nessun’altra parte del mio corpo di uscire dai ranghi, mentre il mio busto crollava di nuovo sul tavolo.

Divenne una battaglia interiore: il cuore che correva sempre più svelto incontro al fuoco minaccioso. Stavano perdendo entrambi. Il fuoco era destinato a morire, dopo aver consumato tutto ciò che era combustibile; il cuore galoppava verso il suo ultimo battito.

Il fuoco si fece più circoscritto e si concentrò nell’unico organo ancora umano, con uno slancio finale insopportabile. Uno slancio cui rispose un battito profondo, un suono cavo. Il mio cuore balbettò due volte, poi emise un ultimo battito sordo.

Non c’era più alcun suono. Alcun respiro. Neanche il mio.

Per un attimo, l’unica cosa che riuscii a comprendere fu l’assenza di dolore.

Poi aprii gli occhi e guardai in alto, sorpresa.

20

Nuova

Tutto era così limpido.

Nitido. Definito.

Nonostante la luce sul soffitto fosse accecante, riuscivo a distinguere le scie luminose dei filamenti all’interno della lampadina. Vedevo i colori dell’arcobaleno nel bianco della luce, ma all’estremità dello spettro percepivo un ottavo colore a cui non sapevo dare un nome.

Dietro la luce, mi era chiara ogni singola venatura del legno scuro del soffitto. Nell’aria, vedevo distinti e separati i granelli di polvere sia nella zona illuminata che in quella in ombra. Giravano come piccoli pianeti, vorticando uno attorno all’altro in una danza celestiale.

La polvere era così bella che la inspirai meravigliata; l’aria mi fischiò in gola e trasportò i granelli in un vortice. Mi parve un gesto innaturale, perché non ne traevo alcun sollievo. Non avevo bisogno d’aria. I miei polmoni non l’aspettavano. Rimasero indifferenti all’afflusso.

Non avevo bisogno dell’aria, ma mi piaceva. Grazie a essa sentivo gli odori della stanza: i deliziosi granelli di polvere, la miscela di aria stagnante mescolata al flusso leggermente più fresco che veniva dalla porta aperta. Un’intensa folata di seta. La sfumatura di qualcosa di caldo e desiderabile, qualcosa che doveva essere umido ma non lo era... Quell’odore fece bruciare la mia gola secca, un’eco debole delle ustioni da veleno, nonostante il profumo fosse guastato dal sapore di cloro e ammoniaca. E, soprattutto, percepivo un profumo come di miele, lillà e sole, più intenso e vicino a me.

Ascoltai il suono degli altri che avevano iniziato a respirare con me. Il loro respiro, mischiato a quella fragranza che era miele, lillà e sole, portava nuovi aromi. Cannella, giacinto, pera, acqua di mare, pane caldo, pino, vaniglia, pelle, mela, muschio, lavanda, cioccolato... Provai una dozzina di diversi raffronti nella mia mente, ma nessuno di loro corrispondeva esattamente a quel profumo. Così dolce e piacevole.

La TV al piano di sotto era silenziosa e sentii che qualcuno — Rosalie? — era salito al piano di sopra.

Udii anche un ritmo smorzato, martellante, con una voce che strillava arrabbiata a ritmo. Musica rap? Per un attimo rimasi sconcertata, poi il suono scomparve, come provenisse da un’auto che passava con i finestrini aperti.

In un baleno mi resi conto che forse era proprio così. Riuscivo a sentire fino alla superstrada?

Capii che qualcuno mi stava tenendo la mano soltanto quando, chiunque fosse, la strinse leggermente. Come era successo prima, mentre trattenevo la sofferenza, il mio corpo si bloccò, meravigliato. Non era il contatto che mi aspettavo. La pelle era perfettamente liscia, ma la temperatura sbagliata. Non era fredda.

Dopo quel primo secondo di sorpresa che mi immobilizzò, il mio corpo rispose al contatto imprevisto in un modo ancora più stupefacente.

L’aria mi sibilò dalla gola e uscì fra i denti serrati con il suono basso e minaccioso di uno sciame d’api. Prima ancora che lo emettessi, i miei muscoli si raccolsero e s’inarcarono, ritraendosi dallo sconosciuto. Lo scatto con cui raddrizzai la schiena avrebbe dovuto trasformare la stanza in una macchia sfocata... ma non lo fece. Vidi ogni granello di polvere, ogni scheggia del legno nelle pareti, ogni filo scucito con precisione microscopica, mentre il mio sguardo turbinava oltre.

Così, quando mi trovai rannicchiata contro il muro, sulla difensiva — dopo circa un sedicesimo di secondo -, avevo già capito cosa mi avesse fatto trasalire e che la mia reazione era stata esagerata.

Oh. Certo. Era ovvio che Edward non mi sembrasse più freddo. La nostra temperatura ormai era identica.

Restai in quella posizione per un altro ottavo di secondo e osservai la scena davanti a me.

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