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I passi di Carlisle si allontanarono e rimasi lì frustrata, senza altre spiegazioni. Di che cosa stavano parlando in modo così misterioso da infastidirmi?

Ricominciai a contare i respiri di Edward per segnare il tempo.

Diecimilanovecentoquarantatré respiri dopo, ecco il fruscio di altri passi, diversi. Più leggeri. Più... ritmici.

Strano, fra un passo e l’altro riuscivo a cogliere una lieve differenza che non ero mai stata in grado di avvertire prima.

«Quanto manca?», chiese Edward.

«Non molto», gli rispose Alice. «Vedi com’è tutto più chiaro? Ora la visualizzo molto meglio». Sospirò.

«Ti senti ancora un po’ amareggiata?».

«Ehi, grazie mille per avermelo ricordato», brontolò. «Anche tu rimarresti mortificato se ti rendessi conto di essere prigioniero della tua stessa natura. Vedo bene i vampiri, perché sono una di loro; vedo gli umani così così, perché lo ero anch’io. Ma non posso vedere questi strani mezzosangue, perché non sono niente che mi riguarda direttamente. Mah!».

«Alice, concentrati».

«Giusto. Ora è fin troppo facile vedere Bella».

Dopo qualche istante di silenzio, Edward sospirò. Era un suono diverso, più felice.

«Sta migliorando sul serio», sussurrò.

«Certo».

«Non eri così ottimista, due giorni fa».

«Due giorni fa non riuscivo a vederla bene. Ma ora che non ci sono più tutti quei buchi neri, è una pacchia».

«Puoi concentrarti un attimo per me? Dammi una previsione... dettagliata».

Alice sospirò. «Quanto sei impaziente. Lasciami un secon...».

Un respiro silenzioso.

«Grazie, Alice». Ora la voce era più chiara.

Quanto mancava? Non potevano dirlo ad alta voce per me? Era troppo chiederlo? Quanti secondi ancora avrei dovuto bruciare? Dieci, ventimila? Un altro giorno, ottantaseimilaquattrocento? Di più?

«Diventerà splendida».

Edward bofonchiò tranquillo. «Lo è sempre stata».

Alice sbuffò. «Sai cosa intendo. Guardala».

Edward non rispose, ma le parole di Alice mi diedero la speranza di non somigliare alla carbonella da barbecue che immaginavo. A quel punto mi sentivo soltanto una pila di ossa bruciacchiate. Ogni cellula del mio corpo era stata ridotta in cenere.

Udii Alice uscire leggera dalla camera. Ascoltai il fruscio del tessuto dei suoi vestiti. Sentii il ronzio tranquillo della luce appesa al soffitto. Il vento soffiare debole contro l’esterno della casa. Riuscivo a udire tutto.

Al piano di sotto, qualcuno guardava una partita di baseball. I Mariners erano in vantaggio di due punti.

«Tocca a me», sentii sbottare Rosalie, e in risposta ci fu un ringhio a bassa voce.

«Ehi, calma», ammonì Emmett.

Qualcuno sibilò.

Restai in ascolto, ma c’era solo la partita. Il baseball non era abbastanza interessante per distrarmi dal dolore, perciò tornai ad ascoltare il respiro di Edward e a contare i secondi.

Ventunomilanovecentodiciassette secondi e mezzo dopo, il dolore cambiò.

La buona notizia era che iniziava a sparire dai polpastrelli e dalle dita dei piedi. A sparire lentamente, ma almeno era un cambiamento. Eccoci, infine. Il dolore stava per andarsene...

Poi la cattiva notizia. Il fuoco in gola era diverso da prima. Non soltanto bruciava, ma era anche secca. Rarsa. Avevo sete. Fuoco e sete bruciavano assieme...

Altra cattiva notizia: il fuoco nel cuore si era fatto più caldo.

Com’era possibile?

Le pulsazioni, già troppo veloci, accelerarono. Il fuoco ne guidava il ritmo a un’andatura nuova e frenetica.

«Carlisle», chiamò Edward. La sua voce era bassa, ma nitida. Se Carlisle era in casa o nei dintorni, l’avrebbe sentita.

L’incendio si ritirò dal palmo delle mie mani e le lasciò felicemente fresche e libere dal dolore. Ma si concentrò nel mio cuore che avvampava caldo come il sole e batteva a velocità furiosa.

Carlisle entrò in camera assieme ad Alice. I loro passi erano così diversi, addirittura avrei detto che Carlisle si trovava sulla destra, davanti ad Alice.

«Ascolta», disse Edward.

Il suono più forte nella stanza era il mio cuore delirante, che batteva al ritmo del fuoco.

«Ah», disse Carlisle. «È quasi finita».

Il mio sollievo, a quelle parole, fu offuscato da una fitta straziante nel cuore.

Ma ora anche i miei polsi erano liberi, e le caviglie. Lì l’incendio era totalmente domato.

«Manca poco», concordò Alice impaziente. «Chiamo gli altri. Devo dire a Rosalie...?».

«Sì, tenete lontana la bambina».

Che cosa? No! No! Che significava: "tenetela lontana"? Cosa gli passava per la testa?

Le mie dita si contrassero. L’irritazione ruppe la facciata perfetta. La camera si fece silenziosa, a parte il martellare del mio cuore: tutti smisero di respirare per un secondo.

Una mano strinse le mie dita contratte. «Bella? Bella, amore?».

Potevo rispondere senza gridare? Ci pensai per un attimo, poi il fuoco divampò ancora più incandescente nel mio petto e defluì dai gomiti e dalle ginocchia. Meglio non rischiare.

«Li porto su», disse Alice con un tono d’urgenza nella voce e sentii il fruscio dell’aria non appena si librò allontanandosi.

E poi... ah!

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