A quel punto ero pronta ad aspettarmi qualsiasi cosa: già immaginavo un covo ad alta tecnologia come quello dei cattivi di James Bond. E quindi pensai che Max doveva avermi dato l’indirizzo sbagliato per mettermi alla prova. O forse il covo era sotterraneo, sotto un banalissimo centro commerciale, annidato sul fianco della collina boscosa in un bel quartiere residenziale.
Parcheggiai nella prima piazzola libera e alzai lo sguardo verso un cartello molto elegante con la scritta «JASON SCOTT, PROCURATORE LEGALE».
All’interno l’ufficio era beige con tonalità verde sedano, inoffensivo e irrilevante. Non si sentiva odore di vampiro e questo mi aiutò a rilassarmi. Solo aromi di umani sconosciuti. Nel muro era installato un acquario e dietro alla scrivania sedeva una segretaria bionda, bella quanto insipida.
«Salve», mi salutò. «Cosa posso fare per lei?».
«Devo vedere il signor Scott».
«Ha un appuntamento?».
«Non proprio».
Sfoderò un sorrisetto affettato. «Allora potrebbe volerci un bel po’. Perché non si siede, intanto che...».
Sorrisi e indicai la mia persona.
Nella sua voce sentivo altre sfumature oltre all’impazienza. Stress. Nervosismo.
«È proprio qui», disse April, appena lui la lasciò parlare.
«Subito, signor Scott!». Si alzò in piedi, agitando le mani mentre mi faceva strada lungo un breve corridoio e mi offriva caffè, tè o qualsiasi altra cosa desiderassi.
«Prego», disse, e mi fece entrare in un ufficio da dirigente, con tanto di scrivania in legno massiccio e diplomi alle pareti.
«Si chiuda la porta alle spalle», ordinò la stridula voce tenorile.
Studiai l’uomo dietro la scrivania, mentre April si ritirava in fretta. Era basso e stempiato, sui cinquantacinque anni e panciuto. Portava una cravatta di seta rossa con una camicia a righe bianche e azzurre, e il blazer blu era appeso allo schienale della poltrona. E poi tremava, era così pallido da aver assunto un malsano colorito giallastro, con la fronte imperlata di sudore: m’immaginai la sua ulcera che ribolliva sotto il salvagente di lardo.
J. si ricompose e si alzò malfermo dalla sedia. Mi porse la mano sopra la scrivania.
«Signora Cullen. È davvero un piacere».
Gli andai incontro e gli strinsi la mano rapidamente, una volta sola. Rabbrividì leggermente al contatto della mia pelle fredda, ma non parve particolarmente sorpreso.
«Signor Jenks. O preferisce che la chiami Scott?».
Fece un’altra smorfia. «Come desidera, naturalmente».
«Che ne dice se lei mi chiama Bella e io la chiamo J.?».
«Come vecchi amici», accettò lui, tamponandosi la fronte con un fazzoletto di seta. Mi fece cenno di sedermi e fece altrettanto. «Devo proprio chiederglielo: sto facendo conoscenza, finalmente, con l’adorabile moglie del signor Jasper?».
Soppesai l’informazione per un secondo. E così quell’uomo conosceva Jasper, non Alice. Lo conosceva, e aveva anche l’aria di temerlo. «Con la cognata, a dire il vero».
Increspò le labbra, come se cercasse disperatamente un senso a tutta la faccenda, proprio come lo cercavo io.
«Il signor Jasper sta bene, immagino?», chiese, cauto.
«Gode di ottima salute. Al momento si è preso una lunga vacanza».
L’affermazione sembrò chiarire un po’ la confusione di J., che annuì fra sé e giunse le mani. «Per l’appunto. Avrebbe dovuto venire nel mio ufficio principale. Le segretarie l’avrebbero condotta direttamente da me, facendole evitare canali meno ospitali».
Annuii e basta. Chissà perché Alice mi aveva dato quell’indirizzo nel ghetto.
«Be’, comunque, ora è qui. Cosa posso fare per lei?».
«Documenti», dissi, cercando di avere la voce di una che sapeva il fatto suo.
«Ma certo», accettò subito J. «Parliamo di certificati di nascita, di morte, patenti, passaporti, tessere sanitarie...?».
Inspirai profondamente e sorrisi. Avevo un grosso debito con Max.
Poi il sorriso svanì. Alice mi aveva mandata qui per un motivo ed ero sicura che fosse per proteggere Renesmee. L’ultimo dono che mi faceva. L’unica cosa di cui era certa che avrei avuto bisogno.
La sola eventualità per cui Renesmee poteva avere bisogno di un falsario era quella di una fuga. E l’unica eventualità che l’avrebbe costretta alla fuga era la nostra sconfitta.
Se insieme a lei fossimo fuggiti anche io ed Edward, i documenti non le sarebbero occorsi subito. Ero certa che Edward sapesse come procurarsi una carta di identità, o che addirittura fosse capace di fabbricarla, ed ero certa che conoscesse qualche modo per fuggire anche senza. Potevamo scappare con lei per migliaia di chilometri. Potevamo attraversare l’oceano a nuoto con lei.
A patto di essere nei paraggi per salvarla.