I palazzi — tutti di tre piani, tutti stretti, tutti leggermente inclinati come se la pioggia battente li avesse piegati — erano soprattutto vecchie case divise in appartamenti multipli. Difficile stabilire di quale colore fosse in origine la vernice scrostata. Tutto si era sbiadito in sfumature di grigio. Alcuni edifici erano occupati da negozi al piano terra: un bar lercio con le vetrine dipinte di nero, un negozio di forniture per sensitivi con mani fosforescenti e carte dei tarocchi che brillavano intermittenti sulla porta, un tatuatore e un asilo con la vetrina tenuta insieme dal nastro isolante. Nei locali non c’erano lampadine, anche se fuori il tempo era brutto a sufficienza da far sì che gli umani avessero bisogno di luce. Sentivo borbottare piano qualche voce distante: sembrava un televisore.
In giro c’era un po’ di gente, due persone che arrancavano sotto la pioggia in direzioni opposte e un’altra seduta sulla bassa veranda di uno studio legale da due soldi, tutto sbarrato con assi: leggeva un giornale bagnato e fischiettava. Quel suono era troppo allegro per l’ambiente.
Ero talmente sconcertata dal tizio che fischiava spensierato, da non accorgermi sulle prime che l’edificio abbandonato era il punto preciso in cui avrebbe dovuto trovarsi l’indirizzo che stavo cercando. Sul palazzo in rovina non c’erano numeri civici, ma il tatuatore lì di fianco era a soli due numeri di differenza.
Mi accostai al marciapiede e rimasi lì col motore al minimo per un po’. Sarei entrata in quel buco in un modo o nell’altro, ma come ci potevo riuscire senza farmi notare dal tipo che fischiettava? Magari parcheggiando nella strada parallela ed entrando dal retro... Ma forse da quel lato avrei trovato ancora più testimoni. Forse dai tetti? Era abbastanza buio per fare una cosa del genere?
«Ehi, signora», mi chiamò il tizio che fischiettava.
Abbassai il finestrino dal lato del passeggero, come se non l’avessi sentito.
Il tizio mise da parte il giornale e restai sorpresa, ora che vedevo i suoi abiti. Sotto lo spolverino lungo e stracciato, era vestito un po’ troppo bene. Non c’era vento che mi portasse l’odore ma, a giudicare dalla lucentezza, la camicia rosso scuro sembrava di seta. I capelli neri e ricci erano arruffati e in disordine, ma la pelle scura era liscia e perfetta, e i denti bianchi e dritti. Una contraddizione.
«Mi sa che non è il massimo lasciare lì la macchina, signora», disse. «Potrebbe non ritrovarla quando torna».
«Grazie dell’informazione», risposi.
Spensi il motore e scesi dall’auto. Forse il mio amico che fischiettava poteva darmi le risposte di cui avevo bisogno in modo molto più pratico che non scassinando quella casa. Aprii il mio grande ombrello grigio, anche se non m’importava più di tanto di proteggere il vestito di cachemire. Feci quello che avrebbe fatto un essere umano.
Il tipo socchiuse gli occhi per vedermi in faccia dietro la pioggia, poi li sgranò. Deglutì, e sentii il battito del suo cuore accelerare mentre mi avvicinavo.
«Sto cercando una persona», cominciai.
«Io sono una persona», disse sorridendo. «Cosa posso fare per te, bellezza?».
«Per caso sei J. Jenks?», chiesi.
«Oh», disse e la sua espressione passò dall’attesa alla comprensione. Si alzò in piedi e mi studiò con gli occhi socchiusi. «Perché cerchi J.?».
«Questi sono affari miei». E poi non ne avevo la minima idea. «Ma sei tu J.?».
«No».
Restammo così a lungo, mentre lui percorreva con lo sguardo vivace l’abito aderente color grigio perla che indossavo. Finalmente arrivò con gli occhi all’altezza del mio viso. «Non sembri una dei suoi soliti clienti».
«Sì, probabilmente sono insolita», confessai, «ma devo davvero vederlo al più presto».
«Non so cosa posso fare», ammise lui a sua volta.
«Perché non mi dici come ti chiami?».
Sorrise, sarcastico. «Max».
«Piacere, Max. E adesso perché non mi spieghi cosa intendi con quel
Il sorriso si trasformò in una smorfia. «Be’, i clienti soliti di J. non ti assomigliano per niente. La gente come te non viene nell’ufficio qui in centro. Normalmente andate dritti nel suo ufficio di lusso nel grattacielo».
Ripetei l’altro indirizzo che avevo, recitando l’elenco di numeri in tono interrogativo.
«Sì, è lì», rispose, di nuovo sospettoso. «Perché non ci sei andata direttamente?».
«Mi hanno dato questo indirizzo. Era una fonte molto affidabile».
«Se tu non stessi combinando qualche guaio, non saresti qui».
Increspai le labbra. Non ero mai stata troppo brava a bluffare, ma Alice non mi aveva lasciato molte alternative. «Forse sto combinando qualche guaio».
Max fece un’espressione contrita. «Senti, signora...».
«Bella».
«Va bene, Bella. Senti, questo lavoro mi serve. J. mi paga piuttosto bene per starmene qua a fare poco o niente tutto il giorno. Voglio aiutarti, davvero, però... E naturalmente parlo da un punto di vista del tutto ipotetico, giusto? O in via ufficiosa, o come preferisci, ma se lo metto in contatto con qualcuno che può farlo finire nei pasticci, io ho chiuso. Capisci il mio problema, vero?».