Improvvisamente si rese conto che riusciva a vederla. Si guardò. Scorgeva anche le braccia e le gambe. Splendevano… No, era l'acqua che aveva iniziato a risplendere. Era fluorescente, di un colore blu scuro.
Un attimo dopo, venne abbagliato da una luce violenta e, d'istinto, sollevò le braccia per proteggersi gli occhi. Lampi di luce. La nuvola. Che cosa stava succedendo? Perché era andato lì?
Ma non erano lampi. La luce violenta aveva un'intensità costante. Anawak si rese conto che era illuminato da un proiettore subacqueo. Altri riflettori si erano accesi lungo la soletta del bacino e rischiaravano lo scafo della
I fari si erano accesi per lui. L'avevano scoperto!
Per un attimo non seppe cosa fare. Ma c'era solo una strada. Doveva andare verso poppa, raggiungere la scaletta e risalire nel punto in cui aveva lasciato la sacca. Col cuore martellante, passò in fretta davanti alle luci violente. Sentiva l'acqua scrosciargli nelle orecchie. Cominciava a mancargli l'aria, ma non voleva riemergere prima di aver raggiunto la scala.
Eccola, saliva a zig-zag lungo la soletta del bacino.
Afferrò la ringhiera e si tirò su. Dall'alto sentì arrivare ordini impartiti ad alta voce e uno scalpiccio di piedi in corsa. In fretta si tolse la maschera e le pinne, attaccò la torcia alla cintura e scivolò verso l'alto finché non riuscì a vedere oltre il bordo.
I fucili erano puntati su di lui.
Nella baracca diedero ad Anawak una coperta. Aveva cercato di spiegare ai soldati che era uno scienziato membro dell'unità di crisi, ma non gli avevano dato retta. Il loro compito era tenerlo prigioniero. Dato che non aveva opposto resistenza né cercato di fuggire, l'avevano portato nella baracca, dove c'erano un sacco di soldati e un ufficiale di servizio che lo stava tormentando con una raffica di domande. Anawak sapeva che non aveva senso inventarsi una storia. Non l'avrebbero comunque lasciato andare. Così raccontò chi era e perché era là. In breve, raccontò la verità.
L'ufficiale lo ascoltò, pensieroso. «Può dimostrarlo?» chiese.
Anawak scosse la testa. «I miei documenti sono nella sacca, là fuori. Potrei andarla a prendere.»
«Ci dica dov'è.»
Spiegò ai soldati dove aveva nascosto la sacca. Cinque minuti dopo, l'ufficiale aveva in mano i suoi documenti e li osservava con attenzione. «Se i suoi documenti non sono falsi, lei si chiama Leon Anawak, residente a Vancouver…»
«Non ho fatto altro che ripeterlo.»
«Dovrà spiegare molte cose. Vuole un caffè? Mi sembra infreddolito.»
«Sono
L'ufficiale si alzò dalla scrivania, andò al distributore automatico e schiacciò un tasto. Uscì un bicchiere di plastica che si riempì di un liquido fumante. Anawak bevve a piccoli sorsi e sentì entrare un po' di calore nel corpo intirizzito.
«Non so se credere alla sua storia», disse l'ufficiale, mentre gli girava lentamente intorno. «Se appartiene davvero all'unità di crisi, perché non ha fatto una richiesta ufficiale?»
«Lo chieda ai suoi superiori. Sono settimane che cerco di prendere contatto con la Inglewood.»
L'ufficiale aggrottò la fronte. «Lei è un collaboratore indipendente?»
«Sì.»
«Capisco.»
Anawak si guardò intorno. Ipotizzò che la stanza ammobiliata con sedie di resopal e tavoli consunti fosse la sala per la pausa pranzo dei lavoratori del bacino, trasformata in una centrale operativa provvisoria. Aveva completamente sbagliato a valutare la situazione. «E ora?» chiese.
«Ora?» L'ufficiale gli si sedette di fronte e intrecciò le dita. «Per prima cosa devo pregarla di restare qui. Il caso non è così semplice. Lei si trova in una zona militare.»
«Non ci sono cartelli, se mi permette di farglielo notare.»
«Non c'è neppure un cartello che autorizzi a entrare, dottor Anawak.»
Anawak annuì. Di che poteva lamentarsi? Era stata un'idea balorda. O forse no… Perlomeno adesso sapeva che l'esercito si stava occupando della cosa, che stava studiando gli organismi sullo scafo e che li teneva in vita. Era poco probabile che i mitili raccolti per Sue Oliviera raggiungessero Nanaimo, almeno finché i capi continuavano a fare ostruzionismo.
L'ufficiale prese la radio dalla cintura e parlò brevemente con qualcuno. «Lei è davvero fortunato», disse poi. «Verrà qualcuno che si occuperà di lei.»
«Perché non prende i miei dati e mi lascia andare?»
«Non è così semplice.»
«Non ho fatto niente d'illegale», disse Anawak. Ma non suonava molto convincente neppure alle sue orecchie.
L'ufficiale sorrise. «Le leggi sulla violazione di domicilio valgono anche per i membri delle unità di crisi. Sulla base del diritto civile.» Poi se ne andò, lasciando Anawak coi soldati. Non gli parlavano, ma lo tenevano d'occhio. Perlomeno il caffè era riuscito a scaldarlo… quello e la rabbia per aver mandato tutto all'aria. Si era dimostrato un perfetto idiota. L'unica consolazione era la prospettiva di ottenere qualche informazione da chi doveva «occuparsi» di lui.