Attese mezz'ora senza fare assolutamente nulla. Poi sentì un elicottero avvicinarsi. Voltando la testa, sbirciò attraverso la finestra che dava sul bacino portuale. Un fascio luminoso entrò nella baracca e un potente proiettore scivolò sull'acqua. Poco dopo, quando l'elicottero sorvolò l'edificio e si abbassò, il rumore dei rotori si fece assordante. Il rombo si trasformò poi in un battito ritmico. L'elicottero era atterrato.
Anawak sospirò. Adesso avrebbe dovuto raccontare tutto una seconda volta. Chi era? Che cosa stava cercando?
Sentì dei passi avvicinarsi e frammenti di conversazione. Entrarono due soldati. Dietro di loro, c'era l'ufficiale, che annunciò: «Ci sono visite per lei, dottor Anawak».
Poi fece un passo di lato e la silhouette di un'altra persona comparve nel riquadro illuminato della porta. Anawak la riconobbe subito. Rimase ferma per un attimo come se volesse osservare all'intorno, quindi si avvicinò lentamente finché non gli fu proprio davanti. Anawak la guardò negli occhi. Due acquamarine in un viso asiatico.
«Buonasera», disse lei con voce bassa e raffinata.
Era il generale comandante Judith Li.
3 maggio
Clifford Stone era nato ad Aberdeen, in Scozia, secondo di tre figli. Fin dai primi anni di vita, gli era andato tutto male. Era piccolo, mingherlino e animato da una cattiveria che non aveva nulla d'infantile. La sua famiglia lo trattava con distacco, come se fosse una disgrazia, un contrattempo penoso che, se ignorato, sarebbe diventato meno gravoso da sopportare. Clifford non doveva portare la responsabilità del primogenito e non era coccolato come la sorella minore. Non si poteva dire che fosse maltrattato, perché in fondo non gli mancava nulla.
Tranne il calore delle attenzioni.
Non aveva mai provato la sensazione di eccellere in qualcosa.
Da bambino non aveva amici e, intorno ai diciotto anni, aveva cominciato a perdere i capelli. Nessuno sembrava interessato alla possibilità che lui si diplomasse brillantemente. Il suo professore gli aveva comunicato il risultato finale con una certa sorpresa, come se si fosse accorto soltanto allora di quel ragazzo insignificante, con gli occhi neri così penetranti. Ma era un ottimo risultato, così il professore gli aveva fatto un cenno gentile col capo, gli aveva sorriso e nello stesso istante si era dimenticato quel viso magro.
Stone aveva studiato ingegneria, rivelandosi molto portato per quella materia. Finalmente — e all'improvviso — aveva ottenuto quel riconoscimento cui aveva sempre ambito. Ma esso era rimasto confinato nell'ambito della sua vita professionale. Lo Stone privato era pressoché inesistente e non tanto perché nessuno volesse avere rapporti con lui, quanto perché lui stesso non si concedeva una vita privata. Il semplice pensiero di una vita privata gli faceva paura, significava ricadere nella mancanza di considerazione da parte degli altri. L'ingegnere Clifford Stone, con la sua intelligenza brillante, faceva carriera alla Statoil, ma disprezzava per le sue paure l'uomo calvo che la sera tornava a casa da solo, finché arrivò a togliergli ogni diritto all'esistenza.
Il colosso petrolifero era diventato la sua vita, la sua famiglia, la sua ragion d'essere, perché dava a Stone qualcosa che, a casa, lui non aveva mai provato. La sensazione di essere davanti agli altri. Di essere il primo. Era una sensazione nel contempo inebriante e angosciosa, un inseguimento continuo. Col passare del tempo, Stone aveva cominciato a nutrire una vera ossessione per la supremazia assoluta, benché nessun successo lo appagasse veramente, dato che non avrebbe saputo come e con chi festeggiare i trionfi. Quando raggiungeva una meta, era incapace di fermarsi anche solo per un attimo. Andava avanti come un ossesso. Fermarsi un attimo, probabilmente, avrebbe significato gettare uno sguardo a un ragazzo magro, dai lineamenti straordinariamente adulti; un ragazzo ignorato tanto a lungo che, alla fine, aveva iniziato a ignorare se stesso. E non c'era nulla che Stone temesse più di quegli esigenti occhi neri.