Johanson sobbalzò e si fermò. Là dove, fino a poco prima, i frangenti avevano sferzato la spiaggia, adesso si stendeva una piana fangosa da cui spuntavano rocce piatte. Il mare si era ritirato. Doveva essere successo nel corso degli ultimi minuti. In ampie zone si vedeva solamente il terreno.
Neppure un terremoto avrebbe provocato un effetto simile in così breve tempo. L'acqua si era ritirata per centinaia di metri.
Karen Weaver avanzò ancora di qualche passo, poi si voltò verso di lui. «Che c'è? Non ha più fame?»
Lui scosse la testa. Nelle sue orecchie risuonò un rumore, crebbe, divenne più alto. In un primo momento, lui pensò a un grande aereo che sorvolava l'acqua a bassa quota e che si era fermato sull'isola. Ma quello non era il rumore di un aereo. Sembrava il brontolio di un temporale in avvicinamento, solo che era troppo uniforme… Non potevano essere tuoni e non cessava…
Improvvisamente capì.
Karen Weaver seguì il suo sguardo. «Che diavolo è quello?»
Johanson stava per rispondere, poi però vide l'orizzonte scurirsi. E anche lei lo vide.
«All'elicottero!» gridò.
La giornalista sembrava impietrita. Poi si mise a correre. Insieme corsero verso l'elicottero. Johanson vide la cabina di guida e il pilota che testava gli strumenti. Ci volle qualche secondo perché l'uomo si accorgesse delle due figure lanciate verso di lui. Johanson gli fece segno di abbassare la scaletta. Sapeva che il pilota non poteva vedere quello che stava arrivando dal mare. L'elicottero era girato con la cabina verso l'entroterra.
L'uomo aggrottò la fronte, poi annuì. Il portellone si aprì con un sibilo e la scaletta scese.
Il rimbombo si avvicinava. Era come se tutto il mondo stesse avanzando verso l'isola.
Il posto sbagliato. Il momento sbagliato.
Atterrito e affascinato, si bloccò sulla scaletta, guardando il mare che tornava a ricoprire la piana fangosa.
«Johanson!»
Qualcuno gli diede un colpo. Lui si riscosse e si affrettò a salire gli scalini, seguito da Karen Weaver. L'elicottero aveva iniziato a vibrare. Poi Johanson scorse lo sbalordimento negli occhi del pilota e gridò: «Parta, subito!»
«Che razza di rumore è? Che succede?»
«Via, sollevi questa carcassa!»
«Non posso fare i miracoli. Cosa devo fare? Verso dove devo volare?»
«Non ha importanza. Bisogna prendere quota.»
I rotori si misero in moto, scoppiettando. Il Bell si staccò dal suolo e salì di un metro, poi di due metri. Ma la curiosità del pilota ebbe il sopravvento sulla paura. L'uomo girò l'elicottero di centottanta gradi, in modo da vedere il mare. Sul suo volto si dipinse il terrore.
«Oh, santo cielo», esclamò.
«Là!» Karen indicò le baracche. «Là fuori!»
Johanson girò la testa. Un uomo in jeans e T-shirt stava uscendo di corsa dall'edificio principale. Correva a perdifiato, gesticolando e teneva la bocca spalancata.
Johanson guardò Karen, perplesso. «Credevo…»
«Anch'io.» La donna osservava terrorizzata la figura che si avvicinava. «Dobbiamo scendere. Oddio, giuro che non sapevo che Steven fosse rimasto qui, pensavo che tutti…»
Johanson scosse energicamente la testa. «Non ce la può fare.»
«Non possiamo abbandonarlo.»
«Guardi là fuori, maledizione. Non ce la può fare. Non ce la facciamo neanche noi…»
Karen lo spinse da parte e gli passò davanti, diretta al portellone. Ma il pilota inclinò l'elicottero sulla striscia di sabbia, verso l'uomo che stava correndo, e lei perse l'equilibrio. Il velivolo fu colpito da una serie di violente raffiche che lo fecero vibrare. Il pilota imprecò ad alta voce. Per un attimo persero di vista lo scienziato, poi se lo ritrovarono vicinissimo.
«Ce la può fare», gridò Karen. «Dobbiamo scendere!»
«No», sussurrò Johanson.
Lei non lo sentì. Non poteva sentirlo. Anche il frastuono dei rotori spariva nel rimbombo del mare che si rovesciava verso la costa. Johanson sapeva che non avrebbero potuto salvare lo scienziato. Oltretutto avevano perso tempo prezioso e ormai dubitava che loro stessi riuscissero a cavarsela. Si costrinse a distogliere lo sguardo dalla figura che stava correndo e a guardare dritto davanti a sé.