Akesuk non aveva cambiato casa: abitava ancora in un piccolo complesso residenziale, grazioso e curato, con la facciata azzurra e il tetto blu scuro. Alle sue spalle, le colline salivano dolcemente e culminavano nel Kinngait, la «grande montagna», i cui versanti erano segnati da venature di neve. Nei ricordi di Anawak, il Kinngait — più una tozza catena montuosa che una vera montagna — svettava nel cielo. E, per un attimo, lui fu tentato di andarlo a esplorare.
Benché fosse piccolo e mingherlino, Akesuk riuscì a prendere lo zaino dal piano di carico prima di Anawak, e tenendolo con una mano, con l'altra aprì di slancio la porta di casa. «Mary-Ann!» gridò. «È arrivato! Il ragazzo è qui!»
Apparve un cagnolino che avanzò goffamente. Akesuk gli passò davanti, sparì all'interno e ricomparve dopo qualche secondo in compagnia di una donna grassoccia, il cui volto cordiale poggiava su un imponente doppio mento. Abbracciò Anawak e lo salutò in inuktitut.
«Mary-Ann non parla inglese», si scusò Akesuk. «Spero che tu capisca ancora la tua lingua.»
«La mia lingua è l'inglese», disse Anawak.
«Sì, naturalmente… Ormai.»
«Ma riesco ancora a capire.»
Mary-Ann gli chiese se aveva fame.
Anawak disse di sì in inuktitut. La donna scoprì una dentatura con molti buchi e, prendendo in braccio il cagnolino che stava annusando gli scarponi di Anawak, gli fece cenno di seguirla. Nell'anticamera c'erano diverse paia di scarpe. Anawak si sfilò meccanicamente i suoi scarponcini da trekking e li posò a fianco delle altre.
«Vedo che non hai dimenticato la buona educazione», sorrise lo zio. «Non sei diventato un
«Li ha raccolti Mary-Ann», disse Akesuk. Suonava come un invito a mettersi comodo.
«Grazie, io…» Anawak scosse la testa. «Credo sia meglio che dorma all'hotel.»
Si aspettava che lo zio si offendesse, ma Akesuk sembrò semplicemente riflettere un po'. «Un drink?» chiese poi.
«Non bevo.»
«Neanch'io. Durante i pasti beviamo succo di frutta. Ne vuoi?»
«Sì, volentieri.»
Akesuk miscelò in due bicchieri succo concentrato e acqua, poi andarono con le bibite sul balcone, dove lo zio si accese una sigaretta. Mary-Ann non era ancora soddisfatta della cottura del suo stufato e aveva detto che non sarebbe stato pronto prima di un quarto d'ora.
«Non posso fumare in casa», spiegò Akesuk. «Quando ci si sposa, succedono cose del genere. Ho fumato in casa per una vita… Ma è meglio così. Non è sano. Se solo riuscissi a smettere…» Sorrise e aspirò il fumo con evidente piacere. «Fammi indovinare, tu non fumi.»
«No.»
«E non bevi. Bene, bene.»
Rimasero per un po' in silenzio, a guardare il panorama delle montagne con le loro venature di neve. Nel cielo brillavano nuvole striate. Appena sotto, volavano gabbiani d'avorio di un bianco splendente e, di tanto in tanto, si lanciavano in basso.
«Com'è morto?» chiese Anawak.
«È caduto», rispose Akesuk. «Ha visto una lepre, l'ha voluta rincorrere ed è caduto.»
«L'hai riportato indietro tu?»
«Il suo corpo, sì.»
«Era ubriaco fradicio?» Il tono amaro con cui aveva posto quella domanda lo spaventò.
Akesuk continuava a guardare le montagne, avvolto dal il fumo. «Ha avuto un infarto… Così ha detto il dottore di Iqaluit. Si muoveva poco e fumava troppo. Erano dieci anni che non beveva neppure un goccio.»