I due cacciatori ritornarono a Pond Inlet e il convoglio di Anawak si rimise in movimento lungo il bordo del ghiaccio. Dopo un po' superarono i resti del narvalo ucciso, circondato da stormi di uccelli che, gridando, cercavano di prendere i brandelli di carne. Il gruppo proseguì per allontanarsi il più possibile ma, quando si fermò, la carcassa era ancora visibile. Le guide piantarono il campo a circa trenta metri dal bordo del ghiaccio. Le casse vennero slegate dalle slitte e fu sistemato il palo per la radio, una cosa necessaria per non perdere il contatto col mondo esterno. In breve tempo, le guide montarono cinque tende, quattro per i viaggiatori e una per la cucina, fornita di pedane e tappeti isolanti. Tre assi pitturate di bianco formavano la toilette; all'interno, c'erano un secchio, provvisto di un sacco di plastica blu, e un sedile smaltato tutto graffiato.
«È arrivato il momento», disse Akesuk, raggiante.
Sparì per primo nel «vaso di miele», come gli inuit chiamavano le loro toilette mobili. Intanto l'allestimento del campo procedeva. Le guide inuit proposero di fare una corsa con gli
Adorava essere lì.
Fecero diverse corse, finché un uomo di Igloolik fu dichiarato vincitore del torneo. A quel punto, la fame si fece sentire. Mary-Ann li cacciò dalla tenda della cucina e così si riunirono all'esterno, infagottati contro il freddo, appoggiati alle slitte, mentre una giovane donna si mise a raccontare una storia inuit, di quelle che ogni volta vengono narrate in maniera un po' diversa. Anawak ricordava che, a volte, quelle storie venivano raccontate per giorni. Gli inuit non pensavano che fosse necessario arrivare alla fine in un colpo solo. I giorni sul ghiaccio erano lunghi e le storie erano lunghe. E allora perché non dividerle?
Era mezzanotte quando Mary-Ann servì la cena. Aveva superato se stessa. C'era un profumo allettante di salmerino alla griglia, spezzatino di caribù con riso ed
Intorno all'una e mezzo, quando tutti cominciavano a essere stanchi, Akesuk tirò fuori dalle profondità del suo bagaglio una bottiglia di champagne. Strizzò l'occhio divertito ad Anawak. Mary-Ann storse il naso e andò a dormire. Infine, rimasero svegli solo Anawak, suo zio e l'uomo che faceva il turno di guardia contro gli orsi.
«Allora ce la beviamo noi», disse Akesuk.
Anawak scosse la testa. «Io non bevo.»
«Ah, è vero!» Akesuk lanciò uno sguardo triste alla bottiglia. «Ne sei sicuro? L'avevo tenuta per aprirla in un'occasione davvero speciale. L'occasione speciale è… Ma sì… Sei tornato a casa e pensavo…»
«Non voglio perdere il controllo, Iji.»
«Di che cosa? Della tua vita o di questo momento?» Rimise via la bottiglia. «Va bene. Ci saranno altre occasioni speciali. Forse avremo una caccia fruttuosa. Magari riusciremo a prendere una balena bianca o un grasso e succoso tricheco. Cosa dici, camminiamo ancora un po' prima di crollare a dormire?»
«Volentieri, Iji.»
Bighellonarono fino al bordo del ghiaccio. Anawak lasciò andare avanti lo zio, che sapeva meglio di lui dove il ghiaccio fosse stabile e dove rischiasse di rompersi. Gli inuit non avevano un'unica parola per indicare il concetto di «neve» o «ghiaccio»: ne avevano centinaia. Al momento, stavano avanzando sul ghiaccio elastico. Mentre gli iceberg erano fatti di acqua dolce — perché i sali non congelavano -, nel ghiaccio alla deriva e nel ghiaccio marino se ne trovavano dei residui. Quanto più in fretta il ghiaccio si congelava, tanto maggiore era la concentrazione salina. Quello era il motivo per cui il ghiaccio diventava più elastico: una cosa vantaggiosa d'inverno — perché era più difficile che si rompesse -, ma un inconveniente in primavera, dato che il rischio di rottura diventava più elevato. Tuffarsi nell'acqua gelata poteva uccidere, ma era ancora peggio se si veniva trascinati dalla corrente sotto il manto di ghiaccio.