Si appoggiarono contro un blocco di pack. Davanti a loro si stendeva il mare argentato. Per un po', Anawak rimase semplicemente a guardare. Anche Akesuk era in silenzio. Lasciarono trascorrere il tempo e improvvisamente — come se la natura avesse deciso di ricompensare la loro resistenza — dall'acqua si levarono due corni attorcigliati, simili a spade incrociate. Due maschi di narvalo apparvero a pochi metri di distanza dal bordo, rivelando le teste tonde, chiazzate di grigio scuro. Poi gli animali s'immersero lentamente. Nel giro di un quarto d'ora sarebbero riemersi. Quello era il loro ritmo.
Anawak era affascinato. A Vancouver Island i narvali non si vedevano praticamente mai. Per molto tempo erano stati prossimi all'estinzione. I loro corni — che in realtà erano denti allungati — erano di avorio e, per quel motivo, i narvali erano stati cacciati per secoli. Comparivano ancora nell'elenco degli animali minacciati di estinzione, ma il loro numero, tra il Nunavut e la Groenlandia, era risalito a diecimila.
Il ghiaccio scricchiolava e gemeva. Un po' più in là, gli uccelli stridevano sui resti dell'animale ucciso. Sulle rocce e sui ghiacciai dell'isola di Baylof si stendeva una luce delicata, che disegnava ombre sul mare ghiacciato. Appena sopra l'orizzonte c'era un sole pallido e gelido.
«Mi hai chiesto se mi sono mancate queste cose», disse Anawak.
Akesuk rimase in silenzio.
«Le ho odiate, Iji. Le ho odiate e disprezzate. Volevi una risposta. Ora ce l'hai.»
Lo zio sospirò. «Hai odiato tuo padre», replicò.
«Forse. Ma prova a spiegare a un ragazzino di dodici anni la differenza tra suo padre e il suo popolo, quando entrambi non hanno altro da offrire che la loro miseria. Mio padre era un debole e soprattutto era sempre ubriaco. Non ha fatto altro che lamentarsi e ha spinto mia madre sulla via della depressione e infine del suicidio. Sapresti dirmi il nome di un solo nucleo familiare in cui non c'è stato un suicida? Erano tutti così. È giusto che si raccontino ancora le storie sugli inuit come popolo orgoglioso e indipendente, ma non è quello che ho visto io.» Guardò Akesuk. «Come fai a sopportare che, nel giro di qualche anno, tuo padre e tua madre diventino dei relitti, dipendenti dalle droghe e incapaci di vivere? Che tua madre s'impicchi perché non riesce più a sopportare se stessa? E che tuo padre non sappia far altro che frignare e ubriacarsi? Sono andato da lui e gli ho detto che doveva piantarla. Che la mia forza bastava per due. Gli ho urlato che sarei andato a lavorare, che avrei fatto qualcosa, che volevo aiutarlo, in primo luogo a mollare la bottiglia, così che potesse tornare a pensare lucidamente, come prima… Ma lui si è limitato a fissarmi con gli occhi sbarrati e si è messo a piagnucolare!»
«Lo so.» Akesuk scosse la testa. «Non era più padrone di se stesso.»
«Mi ha dato in adozione», disse Anawak. Nelle sue parole c'era l'amarezza di anni interi. «Io volevo restare con lui e invece quello smidollato mi ha mandato via.»
«Non ti ha mandato via. Ti voleva proteggere.»
«E allora? Si è forse preoccupato di quello che sarebbe stato di me? Mia madre aveva toccato il fondo della depressione, mio padre era distrutto dall'alcol ed entrambi mi hanno cacciato dalla loro vita. E qualcuno mi ha aiutato? No! Erano tutti impegnati a guardare i buchi nella neve e a lamentarsi di quanto fossero disgraziati gli inuit. Anche tu, lo ricordo bene. Tu eri lo zio Iji, mi facevi ridere, avevi sempre qualche storia da raccontare… Eppure neanche tu sei riuscito a mettere a posto le cose. Eri capace solo di tirare fuori le leggende. Ore e ore a narrare favole sul popolo libero degli inuit. Un popolo nobile! Un popolo orgoglioso!»
«E lo era», confermò Akesuk. «Era un popolo orgoglioso.»
«Quando?»
Si aspettava che Akesuk s'infuriasse, ma lo zio si limitò ad accarezzarsi i baffi. «Prima della tua nascita», mormorò. «Gli uomini della mia generazione sono nati negli igloo, ed era assolutamente ovvio che tutti sapessero costruirli. Quando facevamo il fuoco, lo accendevamo con le pietre focaie, non coi fiammiferi. Non si sparava ai caribù, ma li si uccideva con arco e frecce. Non era lo
«Temo di no.»