Читаем Il quinto giorno полностью

Dalla slitta che pendeva immobile sopra i granchi, scese una sfera smaltata di rosso, non più grande di un pallone da calcio. Era quella a dare il nome al veicolo. Il modo in cui scendeva — collegata solo da un cavo all'apparecchio più grande, con l'occhio splendente dell'obiettivo che fissava dritto davanti a sé — ricordava il piccolo robot da combattimento con cui, in Guerre stellari, Luke Skywalker si allenava con la spada laser. In effetti, lo Spherobot, coi suoi sei piccoli reattori per la guida, imitava il modello cinematografico fin nel dettaglio. Dopo un breve tratto, si abbassò lentamente e poi si fermò al di sopra dei granchi, i quali non ebbero nessuna reazione, neppure quando la sfera rossa si aprì e, dal suo interno, uscirono due bracci sottili e snodati. Un arsenale di strumenti prese a ruotare alle due estremità. Poi, a sinistra, uscì una tenaglia e, a destra, una sega. Le mani di Johanson sui joystick si mossero con cautela in avanti e i bracci del robot nella cisterna seguirono il suo movimento.

«Hasta la vista, baby», disse Sue, imitando Schwarzenegger.

Le tenaglie scesero, afferrarono un granchio e lo sollevarono davanti alla telecamera. Sul monitor, l'animale aveva le dimensioni di un mostro. La sua bocca si mosse, le zampe si dimenarono, ma le chele restavano inerti. Johanson fece ruotare le tenaglie di trecentosessanta gradi e osservò attentamente il comportamento dell'animale mentre veniva girato.

«La motricità è perfetta», commentò. «Il sistema motorio funziona.»

«In compenso ci sono reazioni atipiche», notò Rubin.

«Non divarica le chele, non ha atteggiamenti minacciosi. Questo è semplicemente un automa, una macchina che cammina.» Mosse il secondo joystick e schiacciò un pulsante nella parte superiore, mettendo in azione la sega circolare. Quindi la portò sul fianco della corazza. Per un attimo le zampe del granchio si mossero freneticamente.

La corazza si ruppe e ne uscì qualcosa di lattiginoso, che rimase sospeso per un attimo sopra l'animale spaccato.

«Mio Dio», si lasciò sfuggire Sue.

Quella cosa non somigliava né a una medusa né a una seppia. Era totalmente priva di forma. I suoi bordi erano come percorsi da onde e il corpo si gonfiava e si appiattiva. Johanson ebbe la sensazione che nel suo interno si muovesse un fulmine, ma, nell'illuminazione abbagliante della cisterna, quella poteva anche essere un'illusione ottica. Mentre lui stava riflettendo, improvvisamente l'essere si trasformò in qualcosa di allungato, simile a un serpente, e sparì.

Johanson imprecò, prese il granchio successivo e lo tagliò. Stavolta accadde ancora più in fretta e l'interno gelatinoso scomparve ancor prima che potessero osservarlo attentamente.

«Accidenti!» Rubin era evidentemente agitato. «Cose da pazzi! Che razza di roba è?»

«Qualcosa che scappa», ringhiò Johanson. «Seccante. Come facciamo a prendere quella robaccia?»

«Ma non l'abbiamo già presa?»

«Sì, due cose svolazzanti, grandi come una pallina da tennis senza forma e colore in una piscina. E come le troviamo?»

«Il prossimo lo aprirei direttamente nella cesta del robot», suggerì Sue.

«È aperta nella parte anteriore, scapperà.»

«No, non lo farà. La cesta si può chiudere, basta essere sufficientemente rapidi.»

«Non so se ci riusciremo.»

«Ci provi.»

Sue aveva ragione. Nella parte anteriore della cesta del robot c'era un coperchio a maglie; chiudendolo, la cesta si trasformava in una gabbia. Johanson afferrò un altro animale, girò la sfera di centottanta gradi e la portò verso il robot trasportatore, finché il suo braccio elettronico non si distese all'interno della gabbia. Lì appoggiò la sega circolare sul lato del granchio.

La corazza si frantumò.

Non accadde nulla.

«Vuoto?» si meravigliò Rubin.

Attesero qualche secondo, poi Johanson riportò lentamente indietro il robot sferico.

«Merda!»

L'essere gelatinoso era scivolato fuori dal corpo del granchio, ma aveva scelto la direzione sbagliata. Sbatté violentemente contro la parete posteriore della cesta, si raccolse in forma di palla tremolante e rimase davanti all'inferriata. Il suo disorientamento — ammesso che si potesse definirlo così — durò solo un istante.

La cosa si allungò.

«Vuole scappare!» gridò Sue.

Johanson portò indietro lo Spherobot, che sbatté contro una parete laterale e poi uscì. Uno dei bracci riuscì a prendere il coperchio e lo sollevò.

La cosa si appiattì completamente e poi si lanciò in avanti. A pochi centimetri dalla copertura, fece un balzo indietro e cambiò ancora forma. I suoi bordi si stesero finché essa non rimase sospesa in acqua, come una campana trasparente che occupava quasi la metà della gabbia. Il corpo si piegò. Per qualche secondo sembrò una medusa, poi tornò ad arrotolarsi. Un momento dopo, a galleggiare nella gabbia, c'era di nuovo una palla.

«Una follia», sussurrò Rubin.

«Guardate un po'», esclamò Sue. «Si sgonfia.»

In effetti, la sfera si stava ritirando e perdeva trasparenza. Divenne lattiginosa.

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