Kalidas scosse amaramente la testa. — Ho imparato a non fidarmi della parola degli artisti — disse — specialmente quando non si trovano più in mio potere. Per cui dovrò costringerti a rispettare la promessa.
Con stupore di Kalidas, Firdaz non sembrava più così incerto. Era come se avesse preso una grande decisione e si sentisse finalmente a suo agio.
— Capisco — disse, levandosi in tutta la sua statura. Poi, deliberatamente, girò la schiena al re, come se il suo signore non esistesse più, e si mise a fissare il sole accecante.
Kalidas sapeva che il sole era il dio dei persiani, e le parole che Firdaz stava mormorando dovevano essere una preghiera nella sua lingua. Esistevano anche dèi peggiori da venerare, e l'artista continuava a fissare il disco abbagliante, quasi sapesse che era l'ultima cosa che avrebbe mai visto…
— Prendetelo! — urlò il re.
Le guardie scattarono subito in avanti, ma giunsero troppo tardi. Per quanto accecato dalla luce del sole, Firdaz si mosse con precisione. In tre passi raggiunse il parapetto e si lanciò fuori. Non disse niente mentre precipitava, in un lungo arco, verso i giardini che per tanti anni aveva progettato, e non ci fu nessuna eco quando l'architetto di Yakkagala raggiunse le fondamenta del suo capolavoro.
Kalidas restò addolorato per molti giorni, ma il suo dolore si mutò in collera quando venne intercettata l'ultima lettera del persiano a Isfahan. Qualcuno aveva avvertito Firdaz che a lavoro compiuto lo avrebbero accecato; e si trattava di una menzogna sciagura. Il re non scoprì mai la fonte di quella voce, anche se non pochi uomini morirono lentamente prima di provare la loro innocenza. Lo rattristava pensare che il persiano avesse creduto a una tale bugia; avrebbe dovuto capire che un altro artista non lo avrebbe mai privato del dono della vista.
Perché Kalidas non era un uomo crudele, e nemmeno ingrato. Avrebbe ricoperto Firdaz d'oro, o almeno d'argento, e lo avrebbe fatto partire con molti servi che si sarebbero presi cura di lui per il resto dei suoi giorni. Non gli sarebbe successo mai più di usare le mani; e dopo un po' non ne avrebbe più sentito la mancanza.
7
Il palazzo del Dio-Re
Vannevar Morgan non aveva dormito bene, il che era terribilmente insolito. Era molto orgoglioso del suo grado d'autocoscienza, della capacità di comprendere i propri impulsi ed emozioni. Se non riusciva a dormire, voleva scoprire perché.
Gradualmente, mentre osservava le primissime luci dell'alba riflettersi sul soffitto della camera e udiva le voci scampanellanti di uccelli sconosciuti, cominciò a riordinare i pensieri. Non sarebbe mai diventato ingegnere capo alla Terran Construction se non avesse pianificato la propria vita in maniera da evitare sorprese. Nessuno può essere immune ai colpi della fortuna e del fato, ma lui aveva compiuto tutti i passi necessari per salvaguardare la sua carriera e, soprattutto, la sua reputazione. Il suo futuro era a prova di bomba nei limiti delle sue possibilità. Se anche fosse morto all'improvviso, i programmi inseriti nella memoria del suo computer avrebbero protetto oltre la tomba il sogno che amava tanto.
Fino a ieri non aveva mai sentito parlare di Yakkagala; anzi, fino a poche settimane prima era solo vagamente conscio dell'esistenza di Taprobane, e poi la logica della sua ricerca lo aveva inesorabilmente indirizzato a quell'isola. A quell'ora avrebbe già dovuto essere ripartito, e invece la sua missione non era ancora iniziata. Quel lieve spostamento di programmi non lo preoccupava; quello che lo tormentava sul serio era la sensazione di essere mosso da forze al di là della sua comprensione. Eppure quel senso di meraviglia aveva echi familiari. Lo aveva già sperimentato quando, da bambino, aveva fatto volare l'aquilone nel parco Kiribilli, a fianco dei monoliti di granito che un tempo erano i piloni del ponte del porto di Sydney, demolito da anni.
Quelle torri gemelle avevano dominato la sua infanzia e controllato il suo destino. Forse sarebbe diventato comunque ingegnere; ma il fatto di essere nato lì lo aveva spinto a costruire ponti. E così lui era stato il primo uomo a passare dal Marocco alla Spagna, sospeso a tre chilometri sulle acque agitate del Mediterraneo; senza nemmeno sognare, in quel momento di trionfo, la sua sfida ancora più stupenda che lo attendeva.
Se riusciva nel compito che stava per affrontare, sarebbe rimasto famoso nei secoli. Già il suo cervello, la sua forza e la sua volontà erano tesi al massimo; non aveva tempo per distrazioni sciocche. Eppure era rimasto affascinato dal lavoro di un ingegnere-architetto morto da duemila anni, figlio di una cultura del tutto estranea. E poi c'era il mistero di Kalidas: che scopo aveva la costruzione di Yakkagala? Forse quel re era un mostro, ma nella sua personalità c'era qualcosa che entrava in sintonia coi recessi segreti del cuore di Morgan.