Inutile aggiungere che il Ponte venne costruito con tanto di cavi deflettori sistemati lungo le corsie esterne; e, per quanto ne sapeva Rajasinghe, nessuno era ancora finito nel Mediterraneo. Però Morgan sembrava pronto a offrirsi in sacrificio rituale alle leggi della gravità lì a Yakkagala; altrimenti le sue azioni diventavano incomprensibili.
E adesso cosa stava facendo? Si era inginocchiato a fianco del Trono a Elefante e stringeva in mano una scatoletta rettangolare, all'incirca della forma e delle dimensioni di un vecchio libro. Rajasinghe riusciva solo a intravederla, e il modo in cui l'ingegnere la stava usando non aveva senso. Forse si trattava di uno strumento per analisi chimiche, per quanto lui non riuscisse a capire perché Morgan dovesse interessarsi alla composizione di Yakkagala.
Aveva in mente di costruire qualcosa lì? Non glielo avrebbero permesso, ovviamente, e Rajasinghe non riusciva a immaginare quale meraviglia potesse sorgere in un posto del genere: per fortuna, i re megalomani erano una razza in via d'estinzione. Ad ogni buon conto, considerate le reazioni dell'ingegnere la sera prima, era assolutamente certo che Morgan non avesse mai sentito parlare di Yakkagala prima di recarsi a Taprobane.
E poi Rajasinghe, che aveva sempre tenuto in gran conto il proprio autocontrollo anche nelle situazioni più drammatiche e inattese, uscì in un involontario grido d'orrore. Vannevar Morgan, distrattamente, era indietreggiato e precipitato, nel vuoto.
6
L'artista
— Portatemi il persiano — disse Kalidas appena ebbe ripreso fiato. La salita dagli affreschi al Trono a Elefante non era difficile, ed era perfettamente sicura ora che la scalinata che scendeva lungo la roccia era delimitata da pareti. Però era faticosa. Kalidas si chiedeva per quanti anni ancora sarebbe riuscito a superare quella distanza senza farsi aiutare da qualcuno. Certo, potevano sorreggerlo gli schiavi, ma non si addiceva alla dignità d'un re. Ed era intollerabile che altri occhi, oltre ai suoi, potessero ammirare le cento dee e le cento schiave altrettanto belle che formavano il seguito della sua corte celeste.
Da quel momento in poi, notte e giorno, ci sarebbe sempre stata una guardia all'ingresso della scalinata, l'unica via che portava dal palazzo al paradiso personale creato da Kalidas. Dopo dieci anni di fatiche, il suo sogno era finalmente realizzato. Anche se quei monaci gelosi chiusi in cima alla montagna sostenevano il contrario, lui era ormai un dio.
Nonostante gli anni trascorsi sotto il sole di Taprobane, la pelle di Firdaz era ancora bianca come quella di un romano; e quel giorno, quando s'inchinò davanti al re, pareva ancor più pallido, e irrequieto. Kalidas lo studiò attentamente, poi uscì in uno dei suoi rari sorrisi d'approvazione.
— Hai lavorato bene, persiano — gli disse. — Esiste al mondo un altro artista che poteva fare meglio?
L'orgoglio combatté con la cautela, prima che Firdaz gli desse una risposta esitante.
— Nessuno che io conosca, Maestà.
— E ti ho pagato bene?
— Sono perfettamente soddisfatto.
Quella risposta, pensò Kalidas, era tutt'altro che esatta: il persiano aveva continuato a chiedergli altro denaro, altri aiutanti, materiali costosi che si potevano trovare solo in terre lontane. Ma non si poteva pretendere che un artista s'intendesse d'economia, o che sapesse che il tesoro reale era stato prosciugato dal costo spaventoso del palazzo e di quello che gli stava attorno.
— E ora che il tuo lavoro qui è finito, cosa desideri?
— Vorrei che vostra Maestà mi concedesse il permesso di tornare a Isfahan, per rivedere la mia gente.
Era la risposta che Kalidas si aspettava, e rimpiangeva sinceramente la decisione che doveva prendere. Ma lungo l'interminabile percorso che conduceva in Persia si trovavano troppi potenti, e alle loro mani avide non sarebbe sfuggito il sublime artista di Yakkagala. E le dee dipinte sulla parete occidentale dovevano restare per sempre senza rivali.
— C'è un problema — disse con decisione, e Firdaz si fece ancora più pallido, la sua schiena si piegò a quelle parole. Un re non era tenuto a spiegare niente, ma in quel momento erano due artisti che si stavano parlando. — Tu mi hai aiutato a diventare dio. La notizia è già giunta in molte terre. Se tu abbandoni la mia protezione, altri ti chiederanno di fare la stessa cosa.
Per un attimo l'artista restò in silenzio. L'unico rumore era il ruggito del vento, che smetteva di rado di lamentarsi quando incontrava quell'ostacolo imprevisto lungo il cammino. Poi Firdaz disse, così piano che Kalidas lo udì appena: — Allora mi proibite di andarmene?
— Puoi andartene, e con una ricchezza sufficiente per il resto della tua vita. Ma solamente alla condizione che tu non faccia alcun lavoro per un altro principe.
— Sono pronto a fare questa promessa — rispose Firdaz con una fretta quasi sconveniente.