Morgan perse una parte della vicenda successiva. Quando si fu asciugato gli occhi erano trascorsi una dozzina d'anni, era in corso una complicata disputa familiare, e lui non capiva bene chi erano gli assassini e chi le vittime. Dopo che gli eserciti ebbero cessato di combattere e l'ultimo pugnale si fu abbattuto, il Principe Malgara e la Regina Madre fuggirono in India. Kalidas s'impossessò del trono e imprigionò il padre.
Il fatto che l'usurpatore si fosse astenuto dall'assassinare Paravana non dipendeva dalla devozione filiale, bensì dalla certezza che il vecchio Re possedesse ancora un tesoro segreto, tenuto da parte per Malgara. Paravana sapeva di essere al sicuro finché Kalidas continuava a crederlo; ma alla fine si stancò dell'inganno.
— Ti mostrerò le mie vere ricchezze — disse al figlio. — Preparami un cocchio e ti ci condurrò.
Ma quell'ultimo viaggio, a differenza di Hanuman, Paravana lo fece su un decrepito carro da buoi. Le Cronache dicevano che possedeva una ruota mezzo rotta, che cigolò per l'intero percorso: un particolare che doveva essere vero, perché nessuno storico si sarebbe preso il disturbo d'inventarlo.
Con sorpresa di Kalidas, suo padre ordinò di essere condotto al grande lago artificiale che irrigava la parte centrale del regno. Per portarlo a compimento aveva speso quasi tutti gli anni di regno. S'incamminò lungo la riva dell'enorme specchio d'acqua e fissò la statua che lo rappresentava, a grandezza doppia di quella naturale.
— Addio, vecchio amico — disse, rivolto alla grande figura di pietra che simboleggiava la gloria e il potere perduti, e che stringeva fra le mani, per l'eternità, la mappa in pietra di quel mare artificiale. — Proteggi quello che lascio.
Poi, sotto la sorveglianza di Kalidas e delle guardie, discese gli scalini che portavano in basso, senza fermarsi dove iniziava l'acqua. Quando fu immerso sino alla cintura raccolse l'acqua con le mani e se la versò in testa, poi si girò verso Kalidas, pieno d'orgoglio e di trionfo.
— Qui, figlio mio — gridò, indicando la distesa d'acqua pura, portatrice di vita — qui, qui sono tutte le mie ricchezze!
— Uccidetelo! — urlò Kalidas, folle di rabbia e delusione.
E i soldati ubbidirono.
Fu così che Kalidas divenne padrone di Taprobane, ma a un prezzo che pochi uomini avrebbero accettato di pagare. Perché, come narravano le Cronache, visse sempre "nel timore dell'altro mondo, e di suo fratello". Presto o tardi, Malgara sarebbe tornato a reclamare il trono che gli spettava.
Per qualche anno, come la lunga serie di re che lo aveva preceduto, Kalidas tenne corte a Ranapur. Poi, per motivi su cui la storia non dice niente, abbandonò la capitale reale in favore dell'isolato monolito di roccia di Yakkagala, lontano quaranta chilometri e in mezzo alla giungla. Qualcuno sostenne che stesse cercando una fortezza inespugnabile, al sicuro dalla vendetta di suo fratello. Eppure, alla resa dei conti, ne disdegnò la protezione; e poi, se si trattava solo di una roccaforte, perché mai Yakkagala era circondata da quegli immensi giardini la cui costruzione doveva aver richiesto lo stesso lavoro dei bastioni e del fossato? Soprattutto: "perché gli affreschi?".
Quando il narratore pose questa domanda, dalle tenebre si materializzò l'intera facciata ovest della montagna, non com'era ridotta adesso, ma come doveva essere duemila anni addietro. Una fascia che partiva a un centinaio di metri dal suolo, e che correva per l'intera altezza della montagna, era stata levigata e ricoperta di gesso. Sopra vi era dipinta una gran quantità di donne bellissime, a grandezza naturale, ritratte dalla cintura in su. Alcune erano di profilo, altre no, e tutte seguivano lo stesso modello di base.
La pelle color ocra, il seno rigoglioso, erano vestite di soli gioielli oppure di abiti trasparentissimi. Alcune portavano i capelli acconciati secondo fogge alte e complicate; altre indossavano quelle che sembravano corone. Molte reggevano vasi di fiori, oppure tenevano fra il pollice e l'indice, con delicatezza estrema, un solo bocciolo. Circa metà delle donne erano di pelle più scura delle altre e sembravano schiave, ma non per questo le loro pettinature e i gioielli erano meno eleganti.
— Un tempo esistevano più di duecento figure. Ma le piogge e i venti dei secoli le hanno distrutte tutte tranne venti, protette da una sporgenza di roccia…
L'immagine balzò avanti in primo piano. Ad una ad una, le ultime superstiti del sogno di Kalidas emersero dalle tenebre, accompagnate dalla musica un po' troppo sfruttata, eppure singolarmente adatta, della "Danza di Anitra". Per quanto sfigurate dal tempo, dal decadimento naturale e dai vandali, non avevano perso niente della loro bellezza dopo tanti secoli. I colori erano ancora vivaci, non smorzati dalla luce di più di mezzo milione di tramonti. Fossero dee o donne, avevano tenuto in vita la leggenda della Montagna.