Lì, ai piedi della Montagna, aveva concepito e creato il paradiso terrestre. Ora, in alto sulla cima, gli restava solo da costruire il Paradiso vero.
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La Montagna del Maligno
Quello spettacolo intelligente, basato su luci e suoni, riusciva ancora a toccare Rajasinghe, anche se lo aveva visto una dozzina di volte e ne conosceva ogni particolare. Si trattava di una tappa obbligata per tutti coloro che si recavano in visita alla Montagna, anche se gli spiriti critici come il professor Sarath dicevano che era solo storia in pillole per turisti. Ad ogni modo la storia in pillole era sempre meglio di niente, e assolveva ancora la sua funzione mentre Sarath e i suoi colleghi litigavano aspramente sulla successione esatta degli avvenimenti che si erano verificati lì duemila anni prima.
Il piccolo anfiteatro era dirimpetto alla parete ovest di Yakkagala. Le duecento poltroncine erano orientate in modo che ogni spettatore vedesse le proiezioni laser dall'angolo esatto. Lo spettacolo, per tutto l'anno, iniziava sempre alla stessa ora precisa: le 19, quando gli ultimi bagliori dell'immutabile tramonto equatoriale morivano in cielo.
Era già così buio che la Montagna era invisibile. La sua presenza era solo un'enorme ombra scura che eclissava le prime stelle. Poi da quel buio nacque il battito lento di un tamburo smorzato; e una voce calma, spassionata, cominciò a dire:
— Questa è la storia di un re che uccise suo padre e fu assassinato da suo fratello. Non è certo niente di nuovo nelle vicende del genere umano, che grondano sangue. Ma "questo" re ha lasciato un monumento eterno; e una leggenda che sopravvive da secoli…
Rajasinghe lanciò un'occhiata a Vannevar Morgan, seduto nell'oscurità alla sua destra. Vedeva solo di profilo la faccia del suo ospite, ma non gli era difficile capire che era già stato catturato dalla magia del racconto. Sulla sinistra, gli altri due ospiti (vecchi amici del tempo delle manovre diplomatiche) erano altrettanto presi. Aveva assicurato Morgan che non avevano riconosciuto il "dottor Smith"; oppure, se lo avevano riconosciuto, si erano gentilmente prestati alla commedia.
— Il suo nome era Kalidas, e nacque cento anni dopo Cristo a Ranapur, la Città d'Oro, capitale per secoli dei re di Taprobane. Ma sulla sua nascita gravava un'ombra…
La musica divenne più alta. Al battito del tamburo si unirono flauti e violini, che intrecciarono nell'aria notturna una melodia incalzante, regale. Sulla superficie della Montagna cominciò a bruciare un punto di luce; poi, d'improvviso, s'ingrandì, e parve d'un tratto che una finestra magica si fosse spalancata sul passato, per rivelare un mondo più vivido e ricco di colori della vita stessa.
La rappresentazione, pensò Morgan, è eccellente. Era contento che, per una volta, la cortesia avesse avuto il sopravvento sul desiderio di lavorare. Vide la gioia del Re Paravana quando la concubina preferita gli presentò il suo primogenito; e capì come quella gioia potesse aumentare e diminuire al tempo stesso quando, solo ventiquattr'ore dopo, la Regina diede alla luce un erede più legittimo al trono. Kalidas era nato per primo, ma non era il primo in linea di diritto; e così la scena era pronta per il dramma.
— Eppure, nei primi anni della fanciullezza, Kalidas e il fratellastro Malgara furono amici perfetti. Crebbero assieme, ignari delle rivalità riservate dal destino e degli intrighi che si tessevano intorno a loro. Il primo motivo di discordia non aveva niente a che vedere con le circostanze della loro nascita. Si trattò di un dono innocente, fatto in buona fede.
"Alla corte di Re Paravana giungevano convogli che recavano tributi da molte terre: seta dal Catai, oro dall'Indostan, armature lucenti dalla Roma imperiale. E un giorno un semplice cacciatore della giungla si avventurò nella grande città, recando un dono che sperava gradito alla famiglia reale…"
Tutt'attorno, Morgan udì un coro di "Ohh" e "Ahh" involontari emessi dagli spettatori. Gli animali non gli erano mai piaciuti troppo, però doveva ammettere che la scimmietta bianca come la neve che riposava, serena e fiduciosa, tra le braccia del giovane Principe Kalidas era davvero tenerissima. Da quella sua piccola faccia rugosa, due occhi si protendevano sui secoli trascorsi e sul misterioso, anche se non del tutto invalicabile, abisso che divide l'uomo dalle bestie.
— Secondo le Cronache, non si era mai visto niente del genere: il suo pelo era bianco come latte, i suoi occhi rossi come rubini. Qualcuno la ritenne un buon segno; altri un cattivo segno, perché il bianco è il colore della morte e del lutto. E i loro timori, purtroppo, erano ben fondati.
"Il Principe Kalidas adorava la scimmietta. La chiamò Hanuman, in onore del nobile dio-scimmia del 'Ramayana'. Il gioielliere reale costruì un piccolo carro d'oro su cui Hanuman, con aria solenne, sedeva mentre sfilava davanti alla corte, fra il divertimento e la delizia di tutti i presenti.