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Spesso, ripensando ai miei primi tre mesi da immortale, cercavo d’immaginare che aspetto dovesse avere il filo della mia vita nelle mani delle Parche (a questo punto, chi poteva dire che non esistessero davvero?) ed ero certa che avesse cambiato colore. Credo che in origine fosse di un beige delicato, qualcosa di conciliante e non polemico, adatto a uno sfondo. Adesso doveva essere rosso acceso, o magari oro lucente.

L’arazzo di amici e familiari che mi si era tessuto attorno era bellissimo e splendente, sgargiante dei loro vivaci colori complementari.

Alcuni dei fili che avevo finito per includere nella mia vita mi sorprendevano. I licantropi, con le loro intense tonalità boschive, non li avevo calcolati; Jacob sì, naturalmente, e anche Seth. Ma pure i miei vecchi amici Embry e Quil erano entrati a far parte dell’arazzo nel momento in cui si erano uniti al branco di Jacob, e persino Emily e Sam si dimostravano cordiali. Le tensioni fra le nostre famiglie si stemperarono soprattutto grazie a Renesmee. Era facile volerle bene.

Non avevo previsto nemmeno che Sue e Leah Clearwater si intrecciassero al tessuto della nostra vita.

Sue sembrava essersi assunta il compito di spianare a Charlie la strada della transizione verso il mondo della fantasia. Lo accompagnava dai Cullen quasi tutti i giorni, sebbene desse l’impressione di non trovarsi mai veramente a proprio agio, a differenza di suo figlio e della maggior parte del branco di Jacob. Non parlava molto e si limitava a vegliare protettiva su Charlie. Era sempre suo il primo sguardo che Charlie cercava quando Renesmee lo inquietava con la sua precocità, il che accadeva spesso. Per tutta risposta Sue lanciava un’occhiata eloquente a Seth, come a significare: «A chi lo dici».

Leah era ancora più a disagio di Sue ed era la sola, fra i membri più recenti della famiglia, apertamente ostile alla fusione. Però il nuovo cameratismo che si era venuto a instaurare fra lei e Jacob la teneva vicina a tutti noi. Una volta, non senza una certa esitazione, chiesi spiegazioni a Jacob. Non volevo impicciarmi dei fatti loro, ma m’incuriosiva la nuova piega presa dal suo rapporto con lei. Jacob si strinse nelle spalle e disse che era una questione di branco. Leah era il capo in seconda, adesso, la sua "beta", come l’avevo chiamata una volta, tanto tempo prima.

«Ho pensato che se volevo fare sul serio con questa storia dell’alfa», spiegò Jacob, «certe formalità andavano messe in chiaro».

Nel suo nuovo ruolo Leah sentiva il bisogno di fare spesso rapporto a Jacob e dato che lui era sempre con Renesmee...

Leah non era contenta di frequentarci, ma costituiva l’eccezione. Ormai l’ingrediente principale della mia vita, il tratto dominante dell’arazzo, era la felicità. Al punto che il mio rapporto con Jasper divenne molto più intimo di quanto mi fossi mai sognata.

Sulle prime, però, mi aveva davvero infastidita.

«Gesù», mi lamentai con Edward una sera, dopo aver deposto Renesmee nel suo lettino di ferro battuto. «Se non ho ammazzato Sue o Charlie finora, probabilmente non lo farò mai. Vorrei che Jasper la smettesse di girarmi intorno a quel modo!».

«Nessuno lo mette in dubbio, Bella, neppure per un momento», mi assicurò Edward, «ma sai com’è fatto Jasper, non sa resistere a un buon clima emotivo. E tu sei sempre così felice, amore, che ti gravita attorno senza nemmeno accorgersene».

Poi mi abbracciò forte, perché nulla gli faceva più piacere dello stato d’estasi permanente che mi dava la mia nuova vita.

In effetti ero quasi sempre di umore euforico. Le giornate non erano mai abbastanza lunghe da consentirmi di fare il pieno d’adorazione per mia figlia e le notti erano sempre troppo corte perché potessi appagare il mio bisogno di Edward.

C’era anche una zona d’ombra, però. Immaginavo che, vista dal rovescio, la trama delle nostre vite avrebbe mostrato i lugubri intrecci grigi del dubbio e della paura.

Renesmee disse la sua prima parola a una settimana esatta di vita. La parola era mamma e mi avrebbe resa immensamente felice se non fossi stata così preoccupata per la rapidità dei suoi progressi da contraccambiarla a malapena con un sorriso sul mio volto impietrito. Il fatto che alla prima parola seguisse la prima frase, nello spazio dello stesso respiro, non contribuì, ovviamente, a confortarmi. «Mamma, dov’è il nonno?», chiese con voce squillante da soprano. Parlò a voce alta solo perché mi trovavo dall’altra parte della stanza. L’aveva già chiesto a Rosalie facendo ricorso ai suoi soliti (o del tutto insoliti, a seconda del punto di vista) mezzi di comunicazione e, dato che Rosalie non lo sapeva, si era rivolta a me.

Una situazione analoga si verificò nemmeno tre settimane più tardi, quando mosse i primi passi: dopo aver fissato per un lungo istante Alice, che volteggiava qua e là con le braccia cariche di fiori da distribuire fra i vasi disseminati per la stanza, si alzò in piedi senza nemmeno vacillare e attraversò il locale con grazia di poco inferiore a quella della zia.

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