Ancora non riuscivo a rispondere. Mi sosteneva ansioso, levandomi i capelli dalla faccia, in attesa che riprendessi a respirare.
«Maledetto pollo avariato», brontolai.
«Ti senti bene?». La sua voce era piena di tensione.
«Sì», boccheggiai. «È soltanto intossicazione alimentare. Non sei obbligato a guardarmi. Vattene».
«Neanche per idea, Bella».
«Vattene», urlai con un gemito, mentre cercavo di alzarmi per sciacquarmi la bocca. Mi aiutò con delicatezza, ignorando i miei deboli strattoni.
Pulita la bocca, mi portò a letto e mi fece sedere con cautela, fra le sue braccia.
«Intossicazione alimentare?».
«Sì», gracchiai. «Stanotte ho cucinato del pollo. Sapeva di marcio e l’ho buttato via. Ma ne avevo già mangiato un po’».
Posò una mano fredda sulla mia fronte. Una bella sensazione. «E adesso come stai?».
Ci pensai su. La nausea se n’era andata alla stessa velocità con cui era arrivata e mi sentivo come ogni mattina. «Tutto a posto. Un po’ affamata, forse».
Prima di friggere le uova mi fece aspettare un’ora e mandare giù un bicchierone d’acqua. Ero tornata perfettamente normale, solo un po’ stanca per l’alzataccia nel cuore della notte. Accese la TV sulla CNN — eravamo così lontani dal mondo che se anche fosse scoppiata la terza guerra mondiale non ce ne saremmo accorti — e io sonnecchiai fra le sue braccia.
Annoiata dalle notizie, mi voltai per baciarlo. Come era successo la mattina, al minimo movimento ebbi una fitta nello stomaco. Mi allontanai di scatto, la mano sulla bocca. Sapevo che il bagno era troppo lontano, perciò corsi al lavandino della cucina.
Mi seguì per tenermi i capelli.
«Forse dovremmo tornare a Rio da un medico», suggerì ansioso mentre mi sciacquavo la bocca.
Scossi la testa e puntai verso il corridoio. Dottore uguale puntura. «Mi lavo i denti e vedrai che starò meglio».
Appena il sapore in bocca migliorò, frugai in valigia alla ricerca del kit di pronto soccorso preparato da Alice, pieno di oggetti umani come cerotti, antidolorifici e, obiettivo della mia ricerca, una compressa di Pepto-Bismol. Così forse sarei riuscita a placare il mio stomaco e tranquillizzare Edward.
Ma prima ancora di scovare il medicinale m’imbattei in un’altra cosa che Alice mi aveva preparato. Afferrai la scatolina blu e la fissai, sul palmo della mano, per un istante interminabile, dimenticandomi di tutto il resto.
Poi iniziai a contare, a mente. Una volta. Una seconda. E poi daccapo.
Il colpo sulla porta mi spaventò e la scatoletta ricadde in valigia.
«Tutto bene?», domandò. Edward da dietro la porta. «Ti viene ancora da vomitare?».
«Sì e no», risposi, ma la mia voce usciva soffocata.
«Bella? Posso entrare, per favore?». Era decisamente preoccupato.
«O...kay».
Entrò scrutando la mia posizione, seduta a gambe incrociate sul pavimento accanto alla valigia, e la mia espressione, vuota e fissa. Si sedette accanto a me e mi sfiorò subito la fronte.
«Cosa c’è che non va?».
«Quanti giorni sono passati dal matrimonio?», sussurrai.
«Diciassette», rispose automatico. «Bella, che c’è?».
Ricominciai a contare. Alzai un dito per fargli segno di aspettare e bisbigliai i numeri fra me. Mi ero sbagliata. Era trascorso più tempo di quanto pensassi. Ricominciai.
«Bella!», sussurrò impaziente. «Mi stai facendo saltare i nervi».
Cercai di deglutire. Non funzionò. Perciò mi sporsi verso la valigia e vi frugai fino a ritrovare la scatolina blu degli assorbenti. La sollevai in silenzio.
Mi guardò confuso. «Che? Stai cercando di dirmi che è colpa della sindrome premestruale?».
«No», tentennai ansimando. «No, Edward. Sto cercando di dirti che ho un ritardo di cinque giorni».
L’espressione del suo viso non cambiò. Come se non avessi parlato.
«Non credo sia stata un’intossicazione», aggiunsi.
Non rispose. Si era trasformato in una statua.
«I sogni», mormorai fra me, soprappensiero. «Il sonno. Il pianto. La fame. Oh. Oh.
Lo sguardo di Edward si fece vitreo, come se non riuscisse più a vedermi.
Di riflesso, quasi involontariamente, la mia mano si posò sullo stomaco.
«Oh!», strillai di nuovo.
Mi rialzai a fatica, sfilandomi dalle mani immobili di Edward. Non mi ero ancora cambiata la coulotte di seta e la camicetta che indossavo a letto. Sollevai il tessuto blu e guardai la mia pancia.
«Impossibile», sussurrai.
Non avevo alcuna esperienza di gravidanze, figli, annessi e connessi, ma non ero idiota. Avevo visto abbastanza film e trasmissioni televisive per sapere che non funzionava così. Ero in ritardo di soli cinque giorni. Troppo poco perché il mio corpo si fosse già accorto che
E, soprattutto, troppo presto per avere un piccolo ma ben visibile gonfiore che spuntava dal ventre.
Girai su me stessa per esaminarmi da ogni angolazione, come se alla luce giusta potesse scomparire. Tracciai con le dita il profilo della piccola sporgenza, sorpresa di sentirla, sotto la pelle, dura come la roccia.